Questa zona era per lo più disabitata e vittima di scorrerie di pirati saraceni. Nel Settecento del primo millennio il re Liutprando ordinò Ratcauso, suo gastaldo in Pisa, di liberare le terre in questione dai saccheggi, il quale dopo aver raggiunto l'obiettivo venne premiato proprio con la donazione di quei possedimenti. Poco anni dopo il figlio di Ratcauso, Walfrido, nonchè capostipite dei Conti della Gherardesca, insieme ad altri componenti dell'aristocrazia cittadina come Gundualdo lucchese, cognato di Walfrido, e Forte, il vescovo della Corsica decisero di costruirvici un cenobio.
Il cenobio di San Pietro venne costruito sopra i resti di un "palazzuolo", di una villa romana longobarda, a fianco del tempietto dedicato alla dea Bellona. Istituito in territorio facente parte originariamente soggetto a Lucca, il cenobio dipendeva direttamente dalla Sede Apostolica ed era esentata dalla giurisdizione esercitata dall'ordinario diocesano, il vescovo di Massa Marittima. Soltanto in caso di qualche grave controversia potevano intervenire i vescovi di Pisa e di Populonia e gli abati di San Salvatore, di Ponziano e di San Frediano di Lucca.
La proclamazione di San Pietro, come Abbazia Regia, avvenne tramite i diplomi imperiali emanati nell'anno Mille. Il monastero era un centro amministrativo importante, oltre che un luogo difeso dove erano dispensate cure, distribuito del cibo, garantito un minimo d'assistenza fisica e spirituale.
La comunità che qui si andò a formare arrivò persino a contare centosessanta individui, risultato che portò il monastero ad acquisire una certa importanza e influenza anche oltre Alpe. L'ingente patrimonio dell'abate di Palazzuolo comprendeva quasi tutta la Maremma toscana e molti altri possedimenti nella lucchesia e in Corsica, grazie ai quali era divenuto uno dei centri più potenti e ricchi della Toscana. Un così vasto territorio era naturalmente oggetto della cupidigia dei signori locali, come quelli dei comuni di Pisa e Volterra. L'episcopato volterrano cercò infatti d'impadronirsene fin da poco prima dell'anno Mille, tanto da falsificare un diploma imperiale di Carlo III al vescovo Pietro, inserendovi l'attribuzione del cenobio di Palazzuolo alla chiesa volterrana.
Il processo involutivo del potere monasteriale si concluse nel Milleduecento, quando i monaci si trovarono costretti a giurare fedeltà al comune volterrano, conferendogli anche il diritto di nominare consoli nei castelli di Canneto, Serrazzano, Sasso, Querceto, Montegemoli, Micciano, Monterufoli, Libbiano, Gabbreto ed Agnano. Anche l'emersione di altri protagonisti come il Vescovo di Volterra, l'autorità di Massa Marittima e di Pisa portarono il monastero ad un lento depotenziamento. Le discordie diocesane di contesa tra Volterra e Massa Marittima costrinsero addirittura a spostare il cenobio su un altro crinale di Monteverdi chiamato Poggio alla Badia.
Così i monaci abbandonarono il vecchio monastero sito in località Acqua Viva, per costruirne un altro poco distante, in posizione ritenuta più facilmente difendibile. Purtroppo, ironia della sorte, il nuovo cenobio fu assalito e semidistrutto pochi anni dopo per mano delle masnade dei Pannocchieschi di Castiglion Berardi, che senza ritegno uccisero anche l'abate maggiore. L'abbazia, ridotta a piccola comunità monastica, non ebbe poi più modo di riprendersi.
Il cenobio semidistrutto di Poggio della Badia fu abbandonato completamente nella metà del Cinquecento, quando gli ultimi monaci, prima benedettini e poi vallombrosiani, furono integrati nel piccolo monastero nel centro di Monteverdi.
Dopo secoli di completo abbandono le rovine del monastero di San Pietro in Palazzuolo sono state oggetto di un'accurata opera di restauro conservativo. Sperduto in cima ad un colle dal quale si gode uno splendido panorama, i suoi resti rappresentano una delle più notevoli emergenze storiche ed architettoniche del volterrano. Ammirandone gli imponenti resti non ci resta che immaginare quanto l'influenza del monastero sulla vita di molti uomini è stata comunque contributiva alla prolificazione di agglomerati abitativi nei suoi dintorni, come Canneto e Monteverdi; abitazioni utili inizialmente ai monaci poi divenuti castelletti per il controllo del territorio da parte di Comuni e solo successivamente borghi affascinanti e invidiabili dove metter su famiglia.
Quel che resta del sito storico basso medievale di San Pietro in Palazzuolo è visitabile. Le rovine sono in fase avanzata, ma le operazioni di conservazione svoltesi in tempi più recenti permettono di vedere un imponente monumento ricco di storia. La planimetria dell'edificio è di facile lettura: era infatti costituito da una chiesa, da una torre e da una serie di corpi di fabbrica che assolvevano a diversi compiti quotidiani.
Il complesso religioso è orientato in senso Est / Ovest. Sopra l'unica navata si ergeva un doppio campanile di modeste dimensioni, del quale si conserva solamente un moncone sorretto da tre pilastri verticali. L'altro moncone, che si estende in altezza per tredici metri, fa parte invece della torre; le molte feritoie e le notevoli dimensioni perimetrali della torre inducono a pensare che non fosse una sorta di campanile, per altro funzione già soddisfatta da quella sopra la chiesa, ma piuttosto una abitazione con vista.
Questa zona era per lo più disabitata e vittima di scorrerie di pirati saraceni. Nel Settecento del primo millennio il re Liutprando ordinò Ratcauso, suo gastaldo in Pisa, di liberare le terre in questione dai saccheggi, il quale dopo aver raggiunto l'obiettivo venne premiato proprio con la donazione di quei possedimenti. Poco anni dopo il figlio di Ratcauso, Walfrido, nonchè capostipite dei Conti della Gherardesca, insieme ad altri componenti dell'aristocrazia cittadina come Gundualdo lucchese, cognato di Walfrido, e Forte, il vescovo della Corsica decisero di costruirvici un cenobio.
Il cenobio di San Pietro venne costruito sopra i resti di un "palazzuolo", di una villa romana longobarda, a fianco del tempietto dedicato alla dea Bellona. Istituito in territorio facente parte originariamente soggetto a Lucca, il cenobio dipendeva direttamente dalla Sede Apostolica ed era esentata dalla giurisdizione esercitata dall'ordinario diocesano, il vescovo di Massa Marittima. Soltanto in caso di qualche grave controversia potevano intervenire i vescovi di Pisa e di Populonia e gli abati di San Salvatore, di Ponziano e di San Frediano di Lucca.
La proclamazione di San Pietro, come Abbazia Regia, avvenne tramite i diplomi imperiali emanati nell'anno Mille. Il monastero era un centro amministrativo importante, oltre che un luogo difeso dove erano dispensate cure, distribuito del cibo, garantito un minimo d'assistenza fisica e spirituale.
La comunità che qui si andò a formare arrivò persino a contare centosessanta individui, risultato che portò il monastero ad acquisire una certa importanza e influenza anche oltre Alpe. L'ingente patrimonio dell'abate di Palazzuolo comprendeva quasi tutta la Maremma toscana e molti altri possedimenti nella lucchesia e in Corsica, grazie ai quali era divenuto uno dei centri più potenti e ricchi della Toscana. Un così vasto territorio era naturalmente oggetto della cupidigia dei signori locali, come quelli dei comuni di Pisa e Volterra. L'episcopato volterrano cercò infatti d'impadronirsene fin da poco prima dell'anno Mille, tanto da falsificare un diploma imperiale di Carlo III al vescovo Pietro, inserendovi l'attribuzione del cenobio di Palazzuolo alla chiesa volterrana.
Il processo involutivo del potere monasteriale si concluse nel Milleduecento, quando i monaci si trovarono costretti a giurare fedeltà al comune volterrano, conferendogli anche il diritto di nominare consoli nei castelli di Canneto, Serrazzano, Sasso, Querceto, Montegemoli, Micciano, Monterufoli, Libbiano, Gabbreto ed Agnano. Anche l'emersione di altri protagonisti come il Vescovo di Volterra, l'autorità di Massa Marittima e di Pisa portarono il monastero ad un lento depotenziamento. Le discordie diocesane di contesa tra Volterra e Massa Marittima costrinsero addirittura a spostare il cenobio su un altro crinale di Monteverdi chiamato Poggio alla Badia.
Così i monaci abbandonarono il vecchio monastero sito in località Acqua Viva, per costruirne un altro poco distante, in posizione ritenuta più facilmente difendibile. Purtroppo, ironia della sorte, il nuovo cenobio fu assalito e semidistrutto pochi anni dopo per mano delle masnade dei Pannocchieschi di Castiglion Berardi, che senza ritegno uccisero anche l'abate maggiore. L'abbazia, ridotta a piccola comunità monastica, non ebbe poi più modo di riprendersi.
Il cenobio semidistrutto di Poggio della Badia fu abbandonato completamente nella metà del Cinquecento, quando gli ultimi monaci, prima benedettini e poi vallombrosiani, furono integrati nel piccolo monastero nel centro di Monteverdi.
Dopo secoli di completo abbandono le rovine del monastero di San Pietro in Palazzuolo sono state oggetto di un'accurata opera di restauro conservativo. Sperduto in cima ad un colle dal quale si gode uno splendido panorama, i suoi resti rappresentano una delle più notevoli emergenze storiche ed architettoniche del volterrano. Ammirandone gli imponenti resti non ci resta che immaginare quanto l'influenza del monastero sulla vita di molti uomini è stata comunque contributiva alla prolificazione di agglomerati abitativi nei suoi dintorni, come Canneto e Monteverdi; abitazioni utili inizialmente ai monaci poi divenuti castelletti per il controllo del territorio da parte di Comuni e solo successivamente borghi affascinanti e invidiabili dove metter su famiglia.
Quel che resta del sito storico basso medievale di San Pietro in Palazzuolo è visitabile. Le rovine sono in fase avanzata, ma le operazioni di conservazione svoltesi in tempi più recenti permettono di vedere un imponente monumento ricco di storia. La planimetria dell'edificio è di facile lettura: era infatti costituito da una chiesa, da una torre e da una serie di corpi di fabbrica che assolvevano a diversi compiti quotidiani.
Il complesso religioso è orientato in senso Est / Ovest. Sopra l'unica navata si ergeva un doppio campanile di modeste dimensioni, del quale si conserva solamente un moncone sorretto da tre pilastri verticali. L'altro moncone, che si estende in altezza per tredici metri, fa parte invece della torre; le molte feritoie e le notevoli dimensioni perimetrali della torre inducono a pensare che non fosse una sorta di campanile, per altro funzione già soddisfatta da quella sopra la chiesa, ma piuttosto una abitazione con vista.
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