Riparbella

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Parcheggi

Sulle colline di tufo

Castello dei Conti della Gherardesca

Distesa sulle pendici tufacee della bassa Valdicecina in direzione della costa cecinese, Riparbella assume un aspetto longitudinale tipico dei paesi di transizione, nei quali la strada maestra spacca a metà il centro urbano. Ai dorsi screpolati di color biancastro, che si possono ravvisare nei suoi dintorni, dobbiamo il nome di questo borgo; l’antica toponomastica di Ripa Albella, ovvero Ripa Bianca, faceva riferimento proprio agli scoscesi e diruti declivi dai quali traspariscono bianche terre.

L’identità di Riparbella, oltre a quella rurale a metà tra l’essere un borgo collinare e un paese nel salmastro, è connotata da molti riferimenti medievali, indizi decisivi che fanno spostare l’attenzione del turista di passaggio verso le antiche origini di questo territorio. Un tempo, infatti, a cavallo del secondo millennio, il borgo si esprimeva come appendice del castello murato dei Conti della Gherardesca, i quali ne fecero uso come una immensa proprietà privata, assieme a due castelletti vicinali della Belora e di Bovecchio.

Ai confini dei territori volterrani

Le proprietà dell’arcivescovato di Pisa

Riparbella si trovava nella giurisdizione della pieve di Vallinetro, luogo oggi scomparso che prendeva posizione nella prima piana del Cecina ai piedi della collina. Essa aveva una certa influenza sul territorio e si allineava alla tendenza dell’epoca per cui era la Chiesa a dover tirare spesso le redini politiche e temporali dei popoli. Bene precisare che l’autorità dei vescovi di Volterra con la quale dominavano gran parte dei territori dell’alta Valdicecina, si rivelò inefficace e impotente su Riparbella; così lontana dalla sede centrale, inevitabilmente acquisirono voce altre realtà ecclesiastiche.

Tra queste riuscì a spuntarla l’Arcivescovo di Pisa che con la sua mano eminente allungava le dita anche su Belora, Pomaia e Santa Luce. Se è vero che la Diocesi di Volterra non era riuscita a spingersi fin qui, l’arcivescovato pisano fu minato dall’irruenza del Comune di Volterra alla conquista di Riparbella, Strido, Mele e Montevaso. Il clima di tensione si risolse soltanto ricorrendo a dei giudici di pace, i quali cedettero la vittoria alla Chiesa di Pisa, a condizione, tuttavia, che non dessero rifugio ai fuoriusciti o ai banditi dei territori di Volterra.

Riparbella libero Comune

L’egemonia di Firenze

Dopo lo smacco nei confronti di Volterra, Riparbella rimase fino agli inizi del Quattrocento sotto l’autorità dell’arcivescovo di Pisa. Tuttavia, la sua influenza ecclesiastica venne meno con l’arrivo della repubblica fiorentina; una sottomissione che dovette subire persino Pisa appena sette mesi dopo. Riparbella si piegò all’egemonia fiorentina per due lunghissimi secoli, come del resto fecero gli altri castelli della Valdicecina; le ribellioni si avvicendarono, ma qualsivoglia operazione di contrasto risultò vano, soprattutto durante le lotte tra Firenze e Alfonso d’Aragona, quando l’intero borgo fu completamente distrutto.

Sotto il dominio di Firenze, tuttavia, Riparbella si consolava con il titolo di libero Comune, sottoposto alla Potesteria di Peccioli e al Vicariato della Val di Lari. Il suo territorio era molto più esteso di oggi e arrivava fino alla costa lungo la striscia che intercorre tra i fiumi Cecina e Fine, ma, nonostante la sua posizione favorevole con vista sul mare, mai le sue qualità ebbero una valenza ad uso militare. Piuttosto, per sua natura, verde, solitaria e con poche case favoriva l’allevamento del bestiame e la pastorizia: le due attività principali di Riparbella.

La riduzione dei confini comunitari

Il declino della vocazione rurale

Riparbella, quindi, con una vocazione rurale sfruttava le proprie terre per un uso comunitario, dove si garantivano pascoli liberi, ma regolamentati, e campi da coltivare per il fabbisogno del castello e del suo contado. Queste terre, però, con il tempo vennero privatizzate, ovvero vendute in cambio di moneta; si ebbe così una progressiva restrizione dei pascoli a disposizione della comunità e diminuirono ulteriormente con l’istituzione della Ferriera della Magona verso Cecina con il grande forno al quale erano riservati tutti i boschi nei suoi dintorni.

E non abbiamo considerato che la parte più estrema di Riparbella, quella sulla costa, venne ceduta come proprietà privata alla famiglia di Lorenzo dei Medici e successivamente inserita nelle terre dello Scrittoio delle Reali Possessioni dei Granduchi. Dall’estensione originaria che il Comune di Riparbella aveva, alla fine del Cinquecento arrivò a possedere soltanto il trentadue per cento del suo totale. La vendita senza ritegno aveva portato il Comune a privarsi di una autorità, di una identità, di uno sviluppo.

Il paese invivibile

Riparbella infeudata

Riparbella, dopo la progressiva revisione dei confini, subì anche l’infeudamento. Nel Seicento, quando il Comune combatteva contro la falce impietosa della malaria e l’inarrestabile epidemia di peste, i Medici cedettero il borgo come feudo a Andrea Carlotti di Verona, Marchese di Riparbella. Il Carlotti contribuì all’involuzione del borgo; seppur dotandolo di nuove infrastrutture, fece della campagna una grande riserva di caccia a sfavore delle superstiti attività contadine. L’aumento dei boschi, inoltre, portarono ad una mancata ventilazione del luogo, rendendo l’aria insalubre: una conseguenza che costò un netto calo demografico.

Nel Settecento, il castello, le chiese e il borgo erano in uno stato deplorevole. Tutto andava in malora, la vegetazione regnava sovrana e gli animali avevano l’ardire di invadere i centri abitati. I serpenti, i cinghiali e i lupi erano sempre più frequenti e gettavano terrore negli ultimi abitanti di Riparbella. Vivere qui era diventato impossibile, l’aria era umida, i tetti si ricoprirono di una patina verdastra, i disagi non si contenevano più. Tra tutti i problemi inficiava l’acqua cattiva, che neppure la costruzione di una grande cisterna sopperì a questa mancanza.

I tempi moderni

Dal terremoto alla rinascita

Arrivò il giorno in cui i Carlotti vendettero Riparbella al senatore Carlo Ginori; lui la unì alla sua tenuta di Cecina, ma a metà del Settecento con le abolizioni dei feudi, Riparbella venne sottoposto alla Potesteria di Chianni e al Vicariato di Rosignano Marittimo. Al danno derivato dall’incuria del luogo, ormai degenerato, con conseguente crisi demografica, un secolo dopo arrivò la beffa del terremoto. A metà Ottocento un terremoto colpì tutta la zona costiera della Valdicecina, distruggendo interi quartieri.

A causa del terremoto molti edifici furono rasi al suolo, perdendo così gran parte del sua identità medievale, ma da questo punto preciso della storia, dalla ricostruzione del paese e dal progresso tecnologico Riparbella rinacque. Complice di questa evoluzione fu la costruzione della ferrovia Cecina – Saline che faceva scalo anche qui; Riparbella da luogo isolato, divenne così uno dei tanti centri urbani della Valdicecina capace di accogliere i numerosi braccianti e operai delle industrie del circondario, tra le quali la Salina di Volterra e la Solvay.

Ristoranti

Giardini

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Castello dei Conti della Gherardesca

Distesa sulle pendici tufacee della bassa Valdicecina in direzione della costa cecinese, Riparbella assume un aspetto longitudinale tipico dei paesi di transizione, nei quali la strada maestra spacca a metà il centro urbano. Ai dorsi screpolati di color biancastro, che si possono ravvisare nei suoi dintorni, dobbiamo il nome di questo borgo; l’antica toponomastica di Ripa Albella, ovvero Ripa Bianca, faceva riferimento proprio agli scoscesi e diruti declivi dai quali traspariscono bianche terre.

L’identità di Riparbella, oltre a quella rurale a metà tra l’essere un borgo collinare e un paese nel salmastro, è connotata da molti riferimenti medievali, indizi decisivi che fanno spostare l’attenzione del turista di passaggio verso le antiche origini di questo territorio. Un tempo, infatti, a cavallo del secondo millennio, il borgo si esprimeva come appendice del castello murato dei Conti della Gherardesca, i quali ne fecero uso come una immensa proprietà privata, assieme a due castelletti vicinali della Belora e di Bovecchio.

Ai confini dei territori volterrani

Le proprietà dell’arcivescovato di Pisa

Riparbella si trovava nella giurisdizione della pieve di Vallinetro, luogo oggi scomparso che prendeva posizione nella prima piana del Cecina ai piedi della collina. Essa aveva una certa influenza sul territorio e si allineava alla tendenza dell’epoca per cui era la Chiesa a dover tirare spesso le redini politiche e temporali dei popoli. Bene precisare che l’autorità dei vescovi di Volterra con la quale dominavano gran parte dei territori dell’alta Valdicecina, si rivelò inefficace e impotente su Riparbella; così lontana dalla sede centrale, inevitabilmente acquisirono voce altre realtà ecclesiastiche.

Tra queste riuscì a spuntarla l’Arcivescovo di Pisa che con la sua mano eminente allungava le dita anche su Belora, Pomaia e Santa Luce. Se è vero che la Diocesi di Volterra non era riuscita a spingersi fin qui, l’arcivescovato pisano fu minato dall’irruenza del Comune di Volterra alla conquista di Riparbella, Strido, Mele e Montevaso. Il clima di tensione si risolse soltanto ricorrendo a dei giudici di pace, i quali cedettero la vittoria alla Chiesa di Pisa, a condizione, tuttavia, che non dessero rifugio ai fuoriusciti o ai banditi dei territori di Volterra.

Riparbella libero Comune

L’egemonia di Firenze

Dopo lo smacco nei confronti di Volterra, Riparbella rimase fino agli inizi del Quattrocento sotto l’autorità dell’arcivescovo di Pisa. Tuttavia, la sua influenza ecclesiastica venne meno con l’arrivo della repubblica fiorentina; una sottomissione che dovette subire persino Pisa appena sette mesi dopo. Riparbella si piegò all’egemonia fiorentina per due lunghissimi secoli, come del resto fecero gli altri castelli della Valdicecina; le ribellioni si avvicendarono, ma qualsivoglia operazione di contrasto risultò vano, soprattutto durante le lotte tra Firenze e Alfonso d’Aragona, quando l’intero borgo fu completamente distrutto.

Sotto il dominio di Firenze, tuttavia, Riparbella si consolava con il titolo di libero Comune, sottoposto alla Potesteria di Peccioli e al Vicariato della Val di Lari. Il suo territorio era molto più esteso di oggi e arrivava fino alla costa lungo la striscia che intercorre tra i fiumi Cecina e Fine, ma, nonostante la sua posizione favorevole con vista sul mare, mai le sue qualità ebbero una valenza ad uso militare. Piuttosto, per sua natura, verde, solitaria e con poche case favoriva l’allevamento del bestiame e la pastorizia: le due attività principali di Riparbella.

La riduzione dei confini comunitari

Il declino della vocazione rurale

Riparbella, quindi, con una vocazione rurale sfruttava le proprie terre per un uso comunitario, dove si garantivano pascoli liberi, ma regolamentati, e campi da coltivare per il fabbisogno del castello e del suo contado. Queste terre, però, con il tempo vennero privatizzate, ovvero vendute in cambio di moneta; si ebbe così una progressiva restrizione dei pascoli a disposizione della comunità e diminuirono ulteriormente con l’istituzione della Ferriera della Magona verso Cecina con il grande forno al quale erano riservati tutti i boschi nei suoi dintorni.

E non abbiamo considerato che la parte più estrema di Riparbella, quella sulla costa, venne ceduta come proprietà privata alla famiglia di Lorenzo dei Medici e successivamente inserita nelle terre dello Scrittoio delle Reali Possessioni dei Granduchi. Dall’estensione originaria che il Comune di Riparbella aveva, alla fine del Cinquecento arrivò a possedere soltanto il trentadue per cento del suo totale. La vendita senza ritegno aveva portato il Comune a privarsi di una autorità, di una identità, di uno sviluppo.

Il paese invivibile

Riparbella infeudata

Riparbella, dopo la progressiva revisione dei confini, subì anche l’infeudamento. Nel Seicento, quando il Comune combatteva contro la falce impietosa della malaria e l’inarrestabile epidemia di peste, i Medici cedettero il borgo come feudo a Andrea Carlotti di Verona, Marchese di Riparbella. Il Carlotti contribuì all’involuzione del borgo; seppur dotandolo di nuove infrastrutture, fece della campagna una grande riserva di caccia a sfavore delle superstiti attività contadine. L’aumento dei boschi, inoltre, portarono ad una mancata ventilazione del luogo, rendendo l’aria insalubre: una conseguenza che costò un netto calo demografico.

Nel Settecento, il castello, le chiese e il borgo erano in uno stato deplorevole. Tutto andava in malora, la vegetazione regnava sovrana e gli animali avevano l’ardire di invadere i centri abitati. I serpenti, i cinghiali e i lupi erano sempre più frequenti e gettavano terrore negli ultimi abitanti di Riparbella. Vivere qui era diventato impossibile, l’aria era umida, i tetti si ricoprirono di una patina verdastra, i disagi non si contenevano più. Tra tutti i problemi inficiava l’acqua cattiva, che neppure la costruzione di una grande cisterna sopperì a questa mancanza.

I tempi moderni

Dal terremoto alla rinascita

Arrivò il giorno in cui i Carlotti vendettero Riparbella al senatore Carlo Ginori; lui la unì alla sua tenuta di Cecina, ma a metà del Settecento con le abolizioni dei feudi, Riparbella venne sottoposto alla Potesteria di Chianni e al Vicariato di Rosignano Marittimo. Al danno derivato dall’incuria del luogo, ormai degenerato, con conseguente crisi demografica, un secolo dopo arrivò la beffa del terremoto. A metà Ottocento un terremoto colpì tutta la zona costiera della Valdicecina, distruggendo interi quartieri.

A causa del terremoto molti edifici furono rasi al suolo, perdendo così gran parte del sua identità medievale, ma da questo punto preciso della storia, dalla ricostruzione del paese e dal progresso tecnologico Riparbella rinacque. Complice di questa evoluzione fu la costruzione della ferrovia Cecina – Saline che faceva scalo anche qui; Riparbella da luogo isolato, divenne così uno dei tanti centri urbani della Valdicecina capace di accogliere i numerosi braccianti e operai delle industrie del circondario, tra le quali la Salina di Volterra e la Solvay.

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