Tutti i medici del passato che hanno dovuto affrontare casi di idrofobia si son trovati più volte a non trovare una cura efficace. I tentativi messi in atto, che parevano avere risoluzione, venivano euforicamente scritti all’interno di numerosi libri di studio, ma a rileggerli oggi, anche con una conoscenza superficiale sull’argomento, pare incredibile credere che quei sistemi adottati potessero essere definiti validi. Al limite della stregoneria, erano arrivati anche ad adottare soluzioni così strampalate che con il senno di poi si doveva solo sperare di non essere loro pazienti.
L’infinità dei metodi diversi adottati fa ben capire quanto non riuscissero ad impugnare questa malattia, totalmente fuori controllo, per la quale si andava per tentativi, sviscerando addirittura pratiche ancor più antiche e al limite dell’occulto. Il chiodo di San Donnino è uno di questi esempi di tradizioni ambigue che ha portato una moltitudine di medici a porre basi scientifiche e di studio su considerazioni sbagliate comprovate per vere; ma come per tutte le cose, come se si costruisse su un terreno franabile creduto solido, vien facile capire perché spesso i rimedi risultavano inefficaci e talvolta deleteri e che qualsiasi conclusione si arrivasse a definire risultasse sbagliata a priori.
Prima di affrontare la vicenda del chiodo e cosa avesse di tanto speciale per aver ingannato molti scienziati dei secoli successivi, è necessario capire fin dove si era arrivati con i rimedi per l’idrofobia. Immancabili erano le cure attraverso le piante e le erbe: lo scordio, la centaurea minore, lo smeraldo, la terra di Lenno, le ceneri di granchi di mare, le cantaridi. La radice di genziana e l’incenso. Il marrubio, l’anagallide a fior giallo, la camomilla, l’opopanace disciolto nell’aceto, le ghiande di quercia. Era stato richiesto anche di fare gargarismi di decozione di ginestra.
Poi non mancarono i purganti drastici e l’applicazione contemporanea di un empiastro di diapalma sulla ferita o l’applicazione delle coppette sulla morsicatura, e le scarificazioni. I purganti violenti, l’uso degli alessifarmaci e dei sudoriferi; la legatura del membro al di sopra della ferita, l’ingrandimento di essa ed il prolungato sgorgo di sangue. La somministrazione di mercurio; la trasfusione del sangue dall’arteria di un animale, o di un qualche altro liquore nelle vene dell’idrofobo. Si provò anche il cauterio, l’uso delle mignatte e del sale marino sulla ferita e l’astinenza dal bere. Il salasso fino al deliquio e l’immersione in acqua fredda. Si arrivò persino a credere efficace che bastasse fare una o due incisioni aperte sotto la lingua del malato.
Dall’esame dei numerosi tentativi, si capisce chiaramente quanto erano lungi dall’ottenere vantaggi su questo male; senza considerare che alcune soluzioni venivano vendute come ricette segrete personalizzate spacciate per sicure ed efficaci con l’inganno a favore di un meschino guadagno. Se il fenomeno era superficiale qualche rimedio efficace comunque si palesava: valida era l’amputazione della parte del corpo lesa, un sacrificio che al tempo risultava molto doloroso e con grande rischio di vita; utile era anche il fuoco con il quale si andava a cicatrizzare le ferite e, in casi in cui il fuoco faceva paura, venivano adottate sostanze chimiche che avevano lo stesso effetto di decomporre la pelle, come il muriato d’antimonio, l’acido solforico e il nitrato d’argento.
Ad accompagnare queste pratiche dolorose venivano effettuate anche delle escoriazioni, incentivando copiose emorragie artificiali, e qui ci ricolleghiamo al famoso chiodo di San Donnino. La scarificazione andava fatta più profonda che si potesse e, lasciando scorrere il sangue, era necessario applicare un ferro rovente su tutta la ferita fino a quando la parte lesa non diventava bianca e cauterizzata. Tale pratica si basava sugli antichi studi di Celso che consigliava il medesimo utilizzo per le morsicature di animali rabbiosi. Questo rimedio venne utilizzato per moltissimo tempo, considerandolo erroneamente il più potente distruttore del veleno idrofobico, perciò non a caso molti medici anche tra i più moderni avevano riposto le proprie speranze su tale pratica; si era arrivati fino al punto di convincersi che l’applicazione di un ferro infuocato sull’animale stesso potesse impedire che questo diventasse in futuro rabbioso.
Da qui alla devozione il passo è stato breve. Il popolino di vari paesi cominciò a servirsi delle chiavi arroventate di diverse chiese, fra le quali di San Pietro, di San Rocco, di San Uberto, di San Bellino e nella nostra parte della Valdicecina del chiodo di San Donnino. Questa consuetudine, assolutamente dannosa, ha portato alla morte diverse persone, che anziché curarsi seriamente, si affidarono ciecamente con malintesa fiducia ad una pratica che rasentava quel che sembra una simil benedizione.
Ma se una cura, anziché portare giovamento, inducesse alla morte, difficilmente la si potrebbe venerare, perciò parrebbe impensabile che questo chiodo potesse riscuotere tanto consenso. La questione è più semplice di quanto si pensi, poiché il chiodo arroventato di San Donnino veniva posto sulla ferita di tutti coloro che venivano morsi da animali, indistintamente che fossero idrofobi o sani. Normalmente fra cento cani che mordono, appena due o tre hanno davvero la rabbia, perciò si trattava di una guarigione illusoria in quanto chi veniva morso difficilmente si ammalava e guariva senza avere problemi di alcun tipo. Tuttavia la guarigione, seppur naturale, veniva attribuita lo stesso chiodo, diventando così una vera reliquia capace di riscuotere successo alla pari degli attuali istituti antirabici.
Il chiodo venne ceduto dal medico e martire San Donnino agli abitanti del castello di San Dalmazio con la funzione di avere proprio questo potere di far guarire le persone morse da animali rabbiosi. La tradizione vuole che l’oggetto fosse ceduto ai Serafini, famiglia quivi residente, e poi posto all’interno di un santuario eretto proprio per conservarne le sue proprietà: l’oratorio di San Donnino. La sua adorazione fu talmente grande che portò a tributare il santo dedicandogli in odonomastica un intero quartiere del centro abitato.