Siamo in piena zona dei soffioni. E’ qui che, l’isolamento secolare e una natura desolata e sconvolta dal manifestarsi improvviso di potenti forze sotterranee, si è creato l’ambiente più adatto per dar vita a storie curiose o delicate che l’immaginazione popolare ha poi rivestito di particolari favolosi soprannaturali.
Per inquadrare meglio il racconto della Carrozza di Fuoco sarà opportuno avvertire che agli inizi del Novecento la strada che congiungeva Pomarance a Montecerboli non aveva il tracciato attuale: superata la Croce del Bulera essa piegava a sinistra, affiancata a tratti da una lunga fila di cipressi sopravvissuti fino ai nostri giorni; il percorso quindi si faceva stretto e contorto e si svolgeva a mezza costa, ora attraverso la macchia alta, ora scavato nella pietra viva, lungo la parete ripida e infida di levante del Poggio dei Gabbri. Proseguiva così dal podere dell’Acquarella al Pian degli Stazzi fino ad affacciarsi sulla «Valle dell’Inferno», fumigante di vapori, alla Croce del Masso.
Ecco la descrizione di quei luoghi fatta dal Righetti nella seconda metà del secolo scorso:
«Poco oltre la metà della strada che da Pomarance mena a Castelnuovo Val di Cecina si trova una montagna, o meglio una successione di monti di aspetto triste e pauroso. I grossi fianchi, rotti e come tagliati in burroni, fenditure e crepacci, tutti a punte e angoli, scendono a precipizio e quasi a picco giù nel torrente che occupa la profonda vallata. Non v’è segno di terra, ma dovunque masso arido e nudo, foggiato ora a filoni lunghi e taglienti come lame di coltelli giganteschi, ora a piramidi e guglie, quasi cime di costruzioni strane e meravigliose, ora a mucchi di frantumi simili a macerie di edifici crollati. Nulla vegeta in quel luogo solitario. Se qualche pianta o fil d’erba si affaccia dal nascondiglio dove riuscì per caso a metter radice, non è che per testimoniare come lì non sia possibile vivere. Dappertutto un colore bruno rossastro, come di pietra che il fuoco abbrustolì: sono i Gabbri. Si credeva anticamente in quei luoghi questo l’ingresso dell’Inferno e di qui passare i dannati».
In questo ambiente nacque la nostra storia: ai tempi dei tempi gli abitanti del piccolo castello che si affacciava sul corso tranquillo del Possera erano tutti buoni e pii (senza far torto ai Montecerbolini di oggi!); tutt’intorno e giù fino alla vallata le macchie erano ricche di legna e di selvaggina e i pascoli grassi; i cerbiatti amavano spingersi su per le pendici fino all’abitato da loro il luogo era detto il Monte del Cerbiatto, Mons. Cervuli.
Il tempo scorreva tranquillo, ma un giorno il demonio, a cui la serenità di quei luoghi e le virtù dei castellani davano ai nervi, non seppe più resistere alla voglia di mettere un po’ di scompiglio in paese e di trascinare qualcuna di quelle anime pie alla perdizione. Preso l’aspetto di un viandante anziano e bonario si diede a percorrere la vallata su e giù in una ricca carrozza. La comparsa e i ripetuti passaggi del cocchio sconosciuto non mancarono di attirare l’attenzione e la curiosità degli abitanti del luogo; cosicché presto, vinta l’istintiva diffidenza, essi si lasciarono avvicinare dal viaggiatore straniero e si fermarono a conversare con lui.
A poco a poco questi, facendo sfoggio di oro e di ricchezze e con discorsi suadenti e melliflui, cominciò a insinuare nei malcapitati il miraggio di una vita più facile, libera dai legami del lavoro e della famiglia, senza vincoli morali e piena di lusso e di piaceri; e cercò di gettare il seme della discordia e della cupidigia, dell’insoddisfazione e dell’avventura. Forse sarebbe riuscito nel suo intento: ma un giorno, nella foga del discorso non seppe più trattenersi e arrivò a irridere la virtù e a disprezzare la Fede. Allora, improvvisamente, si compì un prodigio: l’aspetto dello straniero assunse i tratti demoniaci e i suoi occhi lampeggiarono come carboni accesi. I castellani, atterriti, compresero tutto ad un tratto da chi venivano le promesse, i consigli e le lusinghe a cui erano stati per cedere: e si fecero incontro al diavolo minacciosi. Ma questi, lesto, si era già slanciato a precipizio giù per l’erta col suo cocchio infernale: e nella fuga, scagliava rabbiosamente dai finestrini le cose preziose che aveva tenuto con sé. La vendetta si compiva ora in un nuovo maleficio: dove esse colpivano, la terra si inaridiva, il suolo si apriva in una fitta rete di crepe da cui gorgogliavano fuori, putridi e minacciosi minacciosi, getti d’acqua bollente o soffiavano pestifere esalazioni infernali. Ai piedi della rupe ormai nuda di vegetazione in luogo delle voci mansuete dei cerbiatti si udirono i cupi latrati del mitico cane d’Averno. Il Monte del Cerbiatto divenne così il Monte di Cerbero Montecervuli si cambiò in Montecerboli.
Ma le forze del bene non tardarono a riprendere il sopravvento: le pozzanghere ribollenti, le esalazioni mortifere che il demonio aveva provocato anziché continuare a incutere terrore mostrarono di essere una imprevista fonte di ricchezza: sui bordi dei lagoni i raccolsero allume, vetriolo e zolfo; la terra bruciata fu trovata ottima per comporre colori e vernici; certe «lamine filamentose» che si formavano in aghi bianchi e sottili sull’erba bruciacchiata vicino ai fumacchi rivelarono di possedere virtù terapeutiche; le sorgenti d’acqua calda risultarono ottime «ad morba pellenda» a guarire i malanni; perfino le esalazioni gassose contribuirono alla salute degli uomini e degli animali tenendo lontane pestilenze e malattie. Nei fumanti lagoni si misero a lessare vivande o si immersero i listelli di legno da curvar per far botti. Il demonio non si dette ancora per vinto: vagando per la terra piena di vapori cercò di tendere trappole mortali a chi vi si avventurava. Ma quando egli salì di nuovo sulla carrozza per percorrere gli antichi sentieri da essa si levarono paurose lingue di fuoco; il fuoco sprizzò sotto le ruote, brillò negli occhi dei neri destrieri, uscì dalle loro narici mentre l’attacco si dirigeva in una nube di faville verso la parte più impervia del monte di gabbro fra una rovina di sa si e un fondersi improvviso di rocce.
Dove la carrozza era sparita i paesani posero la Croce del Masso per sbarrarle la via del ritorno. Un’altra Croce, al Bulera, chiuse il passo al demonio verso Pomarance. La Carrozza di Fuoco rimase così per l’eternità prigioniera nel tratto di strada compreso fra le due Croci. Ma cediamo di nuovo la parola al Righetti:
«nelle notti burrascose e più oscure si vede una carrozza di fuoco strisciare come volando sui fianchi della montagna o giù nella valle trascinata dai cavalli di fuoco in corsa vertiginosa e con strepito spaventevole. E c’è chi giura di averla vista con i propri occhi, nera come la notte, rapida come la folgore, fragorosa come il tuono.»