In rapida sintesi vado a descrivere i tratti evolutivi delle strutture ospedaliere della zona del volterrano in rapporto all’habitat, dall’alto medioevo fino agli albori dell’età moderna. Il tema mi sembra oltremodo attuale in questo delicato momento in cui, per le concrete esigenze che la nostra società civile va incisivamente riproponendo e per l’indubbia insistenza delle spinte di base, è rimessa in discussione la ragione d’essere delle stesse strutture ospedaliere vigenti; anzi, l’ospedale stesso concepito come unità istituzionale omnicomprensiva, di ogni prestazione sanitaria, non sembra trovare più né consensi né sostenitori.
Il ritorno alla storia non vuole essere un vacuo orpello retorico, bensì un riconoscimento di quel contributo che essa può offrire in ogni tempo a chi sappia leggerla. E il contributo che oggi lo studio dell’evoluzione storica delle istituzioni ospedaliere e del loro funzionamento può dare a coloro che meditano sull’avvenire dei nostri istituti assistenziali è lo spettacolo dei mutamenti che nel corso dei secoli ha portato gli istituti di beneficenza del territorio volterrano a moltiplicarsi e ad evolversi in funzione delle richieste nonchè delle possibilità della società ambientale. Il mio discorso tenderà, pertanto, a evidenziare lo stretto rapporto esistente fra le strutture e l’ambiente e a dimostrare in che misura tali strutture abbiano fatto fronte ai mutamenti del contesto sociale ed economico nel quale venivano inserite.
Se si ripercorrono le tappe della evoluzione delle strutture ospedaliere del nostro territorio, non sfuggirà il fatto che i rapporti fra gli istituti ospedalieri stessi con l’organizzazione territoriale urbana ed extraurbana sono stati strettissimi.
Si pensi al nostro speciale vescovile, detto di Santa Maria o della Cattedrale. Esso fu una conseguenza necessaria dell’essere Volterra sede episcopale e sorse sicuramente nel sec. V con il sorgere e l’affermarsi della diocesi. Anche se non abbiamo documenti scritti per quei tempi lontani, le fonti archeologiche ci assicurano che l’ospedale faceva parte di quel gruppo di edifici che, in ogni città sede vescovile, costituivano il centro della vita religiosa. Lo troviamo ovunque vicino o addirittura inserito nell’episcopio, accanto alla cattedrale, al battistero, al cimitero.
Anche Volterra, quindi, ebbe il suo antico ospedale che documenti posteriori ce lo indicano compreso nell’ambito della «Domus S. Marie». La prima notizia della sua esistenza si ha nel 1161 dal calendario liturgico della stessa cattedrale, compilato dall’arciprete Ugo. Il calendario, descrivendo le cerimonie liturgiche della mattina di Pasqua, indica il percorso che la processione doveva tenere: dall’interno della cattedrale portarsi fino alle porte della chiesa e fare il coro «inter hospitale et domum opere», cioè fra l’ospedale e la casa dell’opera. Non starò qui a dilungarmi in questioni non inerenti é il tema proposto e cioè dove fosse la sua antica ubicazione e come poi si sia sviluppato nei secoli fino all’edificio attuale, dopo aver aggiunto al nome di S. Maria quello di Maddalena. Quello che, invece, a me preme sottolineare è il fatto che l’elemento ospedaliero è inserito all’interno di un ganglio vitale del tessuto urbano.
Infatti, il complesso di edifici che costituiscono la sede episcopale e cioè l’episcopio, la cattedrale di S. Maria con relativa canonica, e dopo 1821 la canonica e la chiesa di Sant’Ottaviano, va esercitando un notevole influsso nella trasformazione e nella struttura topografica di Volterra; specialmente la presenza della cattedrale e dell’episcopio influisce decisamente nello sviluppo dello stesso tessuto urbano della città. Accanto alla «Domus S. Marie» era il «prato episcopatus» dove il vescovo esercitava la giurisdizione diretta, riscuoteva le tasse, regolava l’attività mercantile: è il terreno su cui, per volontà del vescovo Pietro, ebbe luogo dal 1851 fino alla metà del Novecento l’importante fiera di mezzo agosto e su cui sorse più tardi il centro della vita comunale e il centro urbanistico, la “Platea communis” l’odierna Piazza dei Priori.
Se da Volterra ci volgiamo verso il suo territorio risulta chiaramente come i rapporti dell’istituzione ospedaliera con l’ambiente rurale si siano sviluppati in maniera molto stretta. E’ ormai sufficientemente provato come i plebanali medievali abbiano tenuto conto sia delle antiche circoscrizioni tardo-imperiali, chiamate pagus, sia di quei nuclei di insediamenti umani formatisi intorno alle stationes o alle villae. Dopo il crollo dell’impero e la crisi degli stanziamenti barbarici, il risveglio economico generale, di cui appare qualche barlume negli ultimi tempi longobardi, porta la pieve rurale ad essere il centro di un sistema organizzato di canoniche, chiese suffraganee e oratori, trasformando il plebanato in una struttura di organizzazione socio-territoriale.
Essa va esemplando la propria attività su quella cittadina, per cui come avviene per la chiesa cattedrale, le chiese plebanali assumono anche funzioni ospedaliere.
Nel territorio volterrano non abbiamo notizia di ospedali plebanali prima del sec. XII, ma sarebbe una pericolosa miopia non supporre l’esistenza dal momento che esistono plebanali anteriori al Mille. Infatti, l’odierna zona dell’Alta Valdicecina era anticamente divisa in tredici plebanali sorti in epoca tardo – imperiale intorno alle stationes e alle villae, come è attestato dalla toponomastica dei luoghi, in cui le pievi sorsero, ·che è di sicura derivazione latina.
Nella Val di Cecina constatiamo l’esistenza di una plebs ad Morba, vicina alle pozze fumose di acqua calda, all’incrocio di un importante nodo stradale.
Abbiamo una plebs de Publico nella campagna di Pomarance lungo la via romana, forse la maremmana, che correva lungo fa Cecina; una pieve, intitolata a S. Eleuterio si trova a Gabbretum, vicino a Montecatini Val di Cecina; e poi le pievi di Micciano, Querceto, Silano, Caselle, Lustignano e Comessano (Sasso).
Nella Valdera troviamo l’antico plebanato di Monte Voltraio, di Pignano, di Villamagna e la plebs de Nigra (la Nera). Poste queste premesse si possono citare alcuni esempi ospedali plebanali, sia in Valdera che Val di Cecina anche se la loro esistenza e a loro ubicazione ci vengono note casualmente da documenti posteriori.
Basti far cenno all’ospedale di S. Antonio a Pignano, posto in località “ad serras de Pignano” e cioè lungo il tracciato di un’antica via che da Volterra, per il Palagione e i Cornocchi andava in Val d’Elsa. Anche la pieve di S. Giovanni B. di Villamagna ebbe il suo ospedale, che un protocollo dell’archivio comunale del 1293 lo chiama “vetus” cioè antico. E ospedale plebanale può essere considerato quello antico di Micciano, sostituito poi da un nuovo ospedale eretto da un certo Piero fu Simone che lasciò per testamento del 29 luglio 1332 un podere, un letto completo e lire tre per perché se ne facesse uno “de novo”.
La riproposta di nuovi tipi di ospedale alle rinnovate esigenze dell’habitat appare ancora più chiaramente nei secoli XlI e XlII, caratterizzati non soltanto dalla feconda esperienza dei comuni, ma anche dall’intensificarsi dei traffici, dei commerci e degli scambi.
Mi sembra innegabile, quindi, che per realizzare tali obiettivi la società medioevale necessitasse di alcune indispensabili infrastrutture. Volterra stessa subisce nei secoli XlI e XlII nuove trasformazioni sia per rispondere alle esigenze poste dagli ordinamenti comunali, sia per accogliere la crescente domanda di inurbamento proveniente dal contado.
Ebbene, proprio in concomitanza con il rinnovato ruolo assunto da Volterra comunale che sorgono nuovi ospedali urbani ed extraurbani, la cui iniziativa di fondazione è dovuta non soltanto all’iniziativa vescovile, ma a laici facoltosi, al comune e a confraternite laicali, anche se poi al vescovo spetta il controllo degli enti ospedalieri.
Nascono così l’ospedale di Baccio, di Federigo, posto nella contrada di S. Agnolo (in capo della via Nuova); quello di S. Maria di via Nuova, ubicato nell’ex palazzo Lisci, oggi Marchi, come è attestato da un’epigrafe murata sotto l’imposto di due grandi archi; l’ospedale di Strenna sempre in via Nuova e quello di Provenzano o del comune, posto in contrada di porta a Selci.
Anche nelle pendici di Volterra sorgono nuove strutture assistenziali: dagli statuti comunali della metà del sec. XlII ci viene la notizia dell’esistenza del leprosario di S. Lazzaro, che è già organizzato con statuti propri nel 1252; per un testamento del 1348, l’anno della famosa peste, veniamo a sapere di un ospedale a Mazzolla, che certamente doveva preesistere da tempo, annesso alla chiesa; per il pagamento di un oncia di pepe al vescovo, fatto dal rettore Bonaccorso nel 1317, siamo informati di un ospedale a Ulignano, che accoglieva i poveri.
Di più tarda fondazione, invece, sono l’ospedale della Vergine Maria, che un documento trecentesco lo indica “in contrata sancti Stephani extra muros novos civitatis” e cioè fuori delle attuali mura, e l’ospedale di S. Cipriano, detto anche dei Verani, istituito forse nel 1348 al calmarsi della peste.
L’espansione demografica e l’intensificarsi dei traffici e dei commerci non investe solo Volterra ma anche gli antichi castelli del contado, alcuni dei quali assurti a comuni rurali; ed essi cercano di adeguare la rete ospedaliera alle nuove necessità emergenti dal nuovo contesto economico-sociale.
Sorto nel plebanato di Gabbreto, Montecatini Val di Cecina ebbe due ospedali: lo spedale di castello, che si trovava «in castro» e cioè dentro le mura castellane e lo spedale della Compagnia di Carità «extra castrum» cioè in borgo, per alloggiare i poveri. La pievania di Querceto ebbe il suo nuovo ospedale alla metà del sec. XIV e fu dichiarato «religiosus locus» dal vescovo Filippo Belforti che lo prese sotto la sua protezione. Anche il plebanato di Micciano si arricchì di nuove fondazioni ospedaliere fra il XlII e la prima metà del XIV sec.
A Micciano, il nuovo ospedale creato per il testamento di Piero fu Simone era ubicato in cima al colle e formava un corpo unico con la canonica, come si ricava dai documenti «Chiesa e spedale di Micciano uniti insieme: la casa ove habita il prete, casa ove habita i poveri che vengono al castello…».
A Libbiano, la costruzione dell’ospedale fu dovuta a uri fiorentino, Corrado di Sinibaldo, che nel 1277 lasciò intendere fosse molto più antico, rivelando la toponomastica di un insediamento romano; la storia ci dice che l’odierno S. Michele alle formiche fu sede di un antico romitorio dei padri celestini; a Montecerboli, castello vescovile vicino alle «puzzaruole» oltre all’esistenza di un ospedale, che con ogni probabilità aveva qualche relazione con le particolari condizioni del luogo, il vescovo di Volterra possedeva addirittura «balnea sua et episcopatus».
Il plebanato di Publico, divenuto plebanato di Ripa d’arancia, iI nostro Pomarance, ebbe due ospedali: quello di S. Giovanni, forse il più antico, era situato «nello chastello di Ripomaranci luogo detto pietriccio», a contatto con le mura castellane e l’altro di S. Maria «grande ospedale» che accoglieva oltre ai poveri e ai pellegrini anche i «trovatelli» e forniva la dote alle «gettatelle» che si sposavano.
Anche neI plebanato di Lustignano sorse nel 1315 un ospedale, dentro il castello, che il vescovo Ranieri Belforti dichiarò «hospitalitatis locum», imponendogli il titolo di S. Martino.
Nel plebanato di Silano, a Montecastelli, si constata l’erezione di un nuovo ospedale nel 1319, che il vescovo Belforti dichiarò «domum dei et religiosum locum», intitolandolo ai SS. Jacopo e Filippo, patroni del castello.
Ospedali, fondati per la munificenza di facoltosi signori locali, sorsero anche nell’antico castello della Leccia e nell’altro vescovile del Sasso, per ospitare i poveri e ricoverarvi i mendicanti di passaggio.
Ma l’adeguamento delle nuove fondazioni ospedaliere dei sec. XlI e XlII alla realtà deI territorio appare ancora più evidente quando si consideri il potenziamento della infrastruttura viaria intervenuta per sostenere le correnti di traffico, indispensabili per sorreggere la nuova domanda dei mercati; e tale potenziamento è ampiamente documentato.
Alcuni tratti della via Romea che dal mare del Nord giungeva fino a Roma furono sistemati; altri deviati sia a monte che in piano. Si provvide alla costruzione di nuovi ponti, alla ricostruzione degli archi dei vecchi ponti romani, alla sistemazione dei guadi per il passaggio dei fiumi minori. Ebbene, della fondazione di ospedali di guado, nel nostro territorio, siamo informati dai documenti dei sec. XII e XIII.
Un atto di procura del 1219 ci fa conoscere l’esistenza dell’ospedale di Sorbolatico, chiamato anche di S. Giovanni presso il fiume Cecina. E’ chiaro che il 1219 non può essere la data di fondazione dell’ospedale, che era ubicato vicino alle Moie Vecchie, presso il fiume Cecina, a guado del fiume, per facIlitare il passaggio ed ospitare i viandanti soprattutto nella notte. Era tenuto dai frati cavalieri dell’Altopascio come l’altro ospedale presso il fiume Era. Infatti, da un atto di concessione dei 1165 si ha notizia dello spedale dei SS. Ippolito e Cassiano di Padule che si trovava vicino al castello di Agnano, nella pievania di Gabbreto, e che ha lasciato iI nome di Spedaletto ai possessi di Montecatini presso il fiume Era e Villamagna. Nella stessa zona, poi, esisteva un altro ospedale, tenuto dai frati cavalieri del Tempio (Templari) ubicato «ultra Eram ex parte orientis et Villamagne» nel luogo oggi chiamato Magione e che aveva le stesse funzioni di quello di S. Giovanni sulla Cecina e di Spedaletto. Infine da un documento della curia vescovile dell’anno 1254 costatiamo l’esistenza dell’ospedale di Acquaviva, antico castello sulla sinistra del torrente Pavone, in Val di Cecina, vicino all’altro di S. Dalmazio.
Poiché le acque del torrente diventano spesso impetuose, l’ospedale, oltre che per gli infetti, dove a servire come rifugio ai viandanti che dai territorio di Volterra o dalla Maremma avevano necessità di guadare il torrente per salire al castello di Silano o a Montecastelli, oppure da Casole e Radicondoli scendere nel territorio volterrano o nella Maremma.
Identica documentazione, infine possediamo per quanto attiene l’organizzazione ospedaliera sorta nei sec. XII e XlII lungo i tracciati delle vecchie vie municipali romane. Sulla via che per il monte Nibbio, Cerbaiola e Cortilla scendeva verso l’Era, per un rogito del 1170 si constata l’esistenza dell’ospedale dei SS. Giusto e Clemente. Fu l’ospedale di Badia e con questa era sorto nel 1034 sulle balze di monte Nibbio. Infatti, la regola benedettina prescriveva che presso tutti i monasteri si aprissero ospizi per rifugiare poveri e pellegrini.
Al trivio Volterra-Colle-Casole d’Elsa, a pochi passi, forse, dal vecchio tracciato della via Romea, a Montemiccioli, l’antico «castrum populi volaterrani», si trovava lo speciale di S. Lucia per raccogliere i viandanti.
A poca distanza dall’antica via maremmana lungo la Cecina, Gello ebbe assai presto un suo ospedale, intitolato a S. Lorenzo, ubicato dentro il castello, e accoglieva i poveri e i viandanti.
Dal Sinodo Belforti del 1356 veniamo a sapere che nel plebanato dell’antica Caselle, esisteva un ospedale al castello castello di Sassa, ma niente più di questo. Data l’ubicazione quasi eremitica del castello, l’ospedale in cima al monte doveva servire per i viandanti che salivano lassù o per color che per la via Bona (Bibbona) e poggio al Pruno scendevano in Val di Cecina
Ospedale vescovile, ospedali plebanali, ospedali di guado, ospedali sulle vie municipali, e inoltre ospizi per ricevere poveri, viandanti e pellegrini, lebbrosi e trovatelli, dislocati nei centri demici del contado; mi pare che il territorio volterrano nel Medioevo abbia conosciuto una mobilità di forme veramente sorprendente, come penso di aver dimostrato in questa rapida rassegna sulle tipologie ospedaliere in rapporto all’habitat. C’è da chiedersi se le soluzioni che gli uomini medievali hanno dato ai problemi assistenziali abbiano ancora un interesse per noi.
Se un parere mi è dato di esprimere sarei propenso a rispondere di sì, nella misura in cui il Medioevo risolse il problema dell’inserimento degli ospedali nel tessuto urbano e nelle strutture territoriali.
Pertanto, senza voler liquidare l’esperienza medievale nell’ospedale di quartiere, ci si potrebbe ispirare all’articolazione delle tipologie finora esaminate per portare avanti una riflessione su nuovi tipi di insediamento dell’ospedale sia nell’organizzazione sociale del territorio sia nell’ambiente e nelle strutture della città.