L’uomo si è sempre preoccupato della sua difesa personale, ed è per questo che ritroviamo i suoi antichi insediamenti in ambienti naturali o artificiali, dove, trattandosi di terreno sopraelevato ed impervio, era garantita una maggiore protezione anche dalle avversità naturali ed era consentito l’approvvigionamento di acqua, elemento questo indispensabile, dalle numerose sorgenti che sgorgavano da tali alture. E la montagna, o qualsiasi altro rilievo di non facile accesso, è stata preferita dall’uomo nella scelta del proprio habitat, perché veniva sfruttata in ogni sua caratteristica strategica. Tale preferenza è durata fino a pochi secoli fa, in quanto si sa che, nel Medioevo, le costruzioni venivano erette sui monti e sulle colline, anche perché la pianura era per lo più occupata da acquitrini, costituendo così una vasta area malsana. Le montagne consentivano poi anche una visibilità a largo raggio, per cui su questi rilievi la sicurezza appariva maggiormente tutelata da un costante servizio di avvistamento; e in seguito incominciò a funzionare anche la trasmissione di messaggi a distanza, fra i vari insediamenti, tramite lenzuola o fumo di giorno e fuochi la notte.
Questo periodo storico è riconosciuto nei limiti di tempo che si pongono comunemente fra l’anno 476 (caduta dell’impero romano d’occidente) ed il 1492 (scoperta dell’America). Per quanto riguarda l’Italia si ritiene, però, che l’inizio del Medioevo sia da ritardare all’anno 568, cioè alla calata dei Longobardi sulla nostra penisola1.
La suddivisione di questo interessantissimo periodo storico può essere così considerata: Primo Medioevo dal 476 all’800, cioè all’incirca sino all’incoronazione di CarIo Magno, ed è caratterizzato dal prevalere dei Barbari; Alto Medioevo fino al 1122, dominato dai tempestosi rapporti fra la potestà ecclesiastica e quella civile e chiuso col concordato di Worms, avvenuto fra Callisto II ed Enrico V, che pose fine alla investitura dei vescovi da parte imperiale; Tardo o Basso Medioevo che è ravvisabile nel risveglio culturale e civile in ogni campo, che più propriamente deve chiamarsi Rinascimento2.
A parte le suddette divisioni, fu difficile e lenta l’assimilazione dei due modi di vita che i popoli romanizzati dovettero subire, cioè quello romano e quello barbaro, alla quale concorse in modo determinante il cristianesimo.
Erano questi i tempi in cui i castelli e le torri dominavano le campagne e le valli, i quali rappresentavano sicurezza in caso di difesa, alla quale dovevano contribuire tutti gli abitanti del Feudo.
Questo fu il periodo in cui la campagna era preferita alla città, per cui, intorno a questi castelli e le torri, esistevano altre abitazioni, pure esse in muratura, ma anche costituite da capanne che, nell’insieme, formavano il borgo o villaggio.
I signori, cioè gli abitanti dei castelli e delle torri, esercitavano il loro potere sugli abitanti di questi agglomerati, per cui, oltre a rappresentare un simbolo di potenza, questi antichi manieri furono anche protagonisti dell’esercizio di una prepotenza. Alla morte dei signore, i possessi passavano al figlio maggiore, mentre agli altri non toccava nulla e si usava che questi scegliessero la carriera ecclesiastica o quella delle armi.
I giovani che sceglievano quest’ultima attività, erano mandati come paggi, prima, e poi come scudieri, presso un signore amico, dove imparavano a custodire il cavallo, ad usare le armi, finché, verso i vent’anni, venivano nominati cavalieri. Alcuni di questi usarono la loro forza e le armi per commettere prepotenze, ma la maggior parte di essi, invece, mantenne fede al giuramento prestato in occasione della investitura, che era quello di essere prode, coraggioso e leale.
La vita che si svolgeva nei castelli era abbastanza tranquilla ed agiata perché, per procurare il cibo ai signori, lavoravano i contadini. La vita di quest’ultimi era assai misera perché vivevano in casupole di un solo vano o in capanne di legno, lavoravano la terra da mattina a sera e vivevano mangiando brodaglie di orzo o di miglio e verdure che trovavano nei campi o che coltivavano nell’orto. I contadini difficilmente potevano mangiare carne, perché gli animali allevati e la selvaggina erano di proprietà dei signori. Venivano chiamati servi della gleba, servi, cioè, della terra in cui erano nati e anch’essi appartenevano al padrone. Nessuno di essi, senza il permesso del signore, poteva allontanarsi dal podere in cui era nato, e, se lo faceva, poteva esservi ricondotto e punito.
In questi castelli vivevano anche i soldati necessari alla difesa, gli armaioli, i muratori, i panettieri, i cuochi, i sarti, i fabbri, i falegnami, i carpentieri, i calzolai, gli scarpellini, cioè gli artigiani necessari a soddisfare i bisogni di tutti, ma principalmente dei ricchi. Non tardò a verificarsi, venendo a mancare l’autorità imperiale cardine del feudalesimo, un certo risveglio fra le oppresse popolazioni che, aspirando ad una migliore condizione di vita, si scrollarono di dosso la schiavitù imposta dal signore-padrone.
Sin dal IX secolo ci fu un rinnovamento anche nell’abbigliamento, perché l’uomo si tagliò la lunga capigliatura, sostituendola con un’acconciatura dei capelli tagliati sulla nuca, e scomparve anche la lunga barba che, invece, resistette ancora nei contadini. Quindi tutto l’abbigliamento fu più curato al punto che gli uomini superavano perfino le donne per lo splendore, la ricchezza e la vivacità dei colori dei loro vestiti.3 I ceti più bassi erano abbigliati con pantaloni aderenti e una blusa fatti o di pelle o di stoffa molto resistente. Alla cintura tenevano agganciati il coltello, la borsa, le chiavi, gli arnesi del mestiere. Sulle spalle si usava mettere o un mantello lungo o una mantellina corta, e in testa un berretto, un cappello di lana, di feltro o di pelo. Si usavano anche lunghe calze e scarpe di cuoio con punta aguzza per fendere le erbe, oppure rialzate per evitare inciampi4. Più tardi questo abbigliamento subì una ulteriore variazione perché le calze si allungarono fino a raggiungere le cosce e divennero così calze-braghe. La maggior parte dei vestiti era fatta di lana e solamente i contadini e i cacciatori usavano vesti di pelli o di cuoio; tutti i capi di abbigliamento venivano generalmente filati, tessuti e cuciti nelle case private, perché dai sarti ci andavano soltanto i ricchi5.
La donna, anche se ritenuta un essere inferiore, era signora nella casa che essa dirigeva e che spesso, in assenza degli uomini, amministrava5bis. Affrontando, però, l’intero problema della donna nel Medioevo, incontriamo vari «pro» e vari «contro». Essa, infatti, si affermò con caratteri di spiccata indipendenza e addirittura di potere, nella cultura, nella religione e in ogni altro settore della vita politica e sociale. In pieno periodo feudale, le ragazze diventavano maggiorenni a dodici anni di età, cioè due anni prima dell’uomo, e la donna medievale conservava, nel matrimonio, il suo cognome, mentre prenderà quello del marito solo nel 1600. La cultura di quest’epoca, inoltre, risentì dell’influenza e della fantasia della donna in un pur delicato e pittoresco intreccio di politica, ideologia, dolce stil nuovo, sogno e poesia. È di una donna il più antico trattato di educazione, la medicina del XIII secolo è assai praticata dalle donne e, nello stesso periodo, negli ordini monastici la figura della badessa prevalse, come simbolo di autorità, anche sui frati. Ma non mancarono i «contro», in quanto, si teneva in gran conto l’integrità femminile, tanto che non si poteva mandare a morte una vergine. Si rimediò a tale impedimento, al fine di mettere così in completa tranquillità l’ipocrita coscienza di tutta la società dell’epoca, autorizzando il boia a violentare le condannate prima della loro esecuzione.5ter È poi da porsi in evidenza la cintura di castità che veniva imposta alla donna quando il marito doveva assentarsi per vario tempo dal Feudo. La cintura, in questo caso, che per gli uomini serviva a stringere le vesti al corpo o a sostenere la spada o la borsa e, molto spesso, veniva usata come distintivo di grado o di dignità, per la donna, invece, era una costrizione avvilente, perché manifestava l’infiducia del maschio verso di essa, senza trascurare, infine, che, molto spesso, era un supplizio, perché lacerava la parte intima del corpo su cui poggiava. Bisogna ricordare, però, che proprio attraverso questo mondo riaffiorò il valore della donna, per la quale il cavaliere frequentemente si batteva secondo determinate norme di cavalleria, senza trascurare, infine, che è a gente di questo tipo che si deve l’amore cortese, l’amore cioè che, pur mirando al suo logico completamento, non disdegnava ciò che è puramente ideale e spesso ìrraggiungibile6.
Gli studi nel Medioevo si svolgevano presso delle corporazioni che avevano per oggetto gli istituti d’insegnamento ed erano costituiti dall’associazione d’insegnanti e di studenti. Tali corporazioni erano dette universitates, termine ereditato dal diritto romano. Le prime universitates sorsero dalle scuole ecclesiastiche e, quindi, furono prevalentemente scuole monastiche e vescovili quelle dell’Alto Medioevo, ma certo ci furono anche scuole secolari, come quelle che si tenevano presso le curie ducali o marchionali, per la formazione di un ceto di amministratori della Giustizia7.
È bene ora precisare, anche se brevemente, che cosa s’intende per Feudo e per Comune e, quindi, far conoscere l’enorme differenza esistente fra essi. Nel periodo dal 774 all’888 si affermò l’impero Carolingio, che si sviluppò in un complicato apparato burocratico retto dai Conti in nome dell’imperatore Carlo Magno.
Nei compiti più onerosi, cioè nei territori di confìne ove necessitava una maggiore sorveglianza, i Conti erano sostituiti dai Marchesi. Una legge di Carlo Magno, dell’anno 810, diceva: Per quanto riguarda la massa del popolo, ciascun capo imponga la sua coercizione sui propri dipendenti, affinché essi sempre meglio obbediscano e consentano ai decreti imperiali8. Ciò voleva dire che una società come quella romana, dove esisteva la coscienza di uno stato e dove il rapporto fondamentale era appunto quello tra cittadini e stato, veniva sostituita da un’altra società, dove il rapporto si creava solo per un vincolo personale tra superiore ed inferiore. Il potente, infatti, aveva necessità di uomini atti a combattere con lui, a consigliarlo nella politica, a far produrre le sue terre e a fornirgli perfino assistenza e servizio nei suoi divertimenti. L’inferiore, invece, perché socialmente debole, aveva bisogno di tutto, principalmente di qualcuno cui offrire le proprie forze e capacità, a, fin di averne in cambio i mezzi per vivere con la sua famiglia e la protezione che lo sottraesse alle violenze dei potenti. Si trattava, quindi, di concessione di redditi o beni contro la prestazione di servizi.
Ma anche l’impero Carolingio entrò in crisi perché i successori di Carlo Magno non ebbero la sua capacità e non goderono del suo prestigio, per cui si affermò una maggiore indipendenza di feudatari che ebbe l’effetto di frazionare la società con la rigorosa distinzione fra signori e servi, dando prevalenza alla campagna sulla città.
Ebbe così origine il Feudo, cioè un territorio di solito molto vasto, assegnato ad un protetto dell’imperatore, chiamato feudatario o vassallo, che aveva, a sua volta, la possibilità di spartire ancora la proprietà per distribuirla ai suoi fidi, detti valvassori, valvassini. Il frazionamento dei territori dette origine a varie rivalità, per cui la feudalità laica non fu più capace di governare il Feudo. Per tale motivo, Ottone I escogitò una nuova forma di feudalità, quella ecclesiastica che, avvalendosi dell’approvazione della Chiesa, dominò la scena politica tramite i vescovi conti.
I vescovi conti, infatti, favoriti dalla riverenza che il loro ministero suscitava in anime semplici e religiose, dominarono di fatto e di diritto il governo civile e furono riconosciuti dal popolo come gli effettivi signori e, quindi, ebbero da questo obbedienza e collaborazione. Tale tipo di feudalità, come vedremo, ci riguarda direttamente perché Monte Voltraio fu un comune suddito dei vescovi conti, come pure Volterra e San Gimignano furono governate per un lungo periodo dal potere ecclesiastico, venendosi poi a trovare, a seguito del sorgere dei Comuni, supposizioni opposte per rivalità. Nella prima metà del secolo XII, col progressivo deteriorarsi del potere imperiale e papale, in contrapposto alla potenza vescovile, si affermò quella dei Comuni.
Ebbe così origine la lotta tra il vescovo e il comune, cioè fra la potestà ecclesiastica e quella civile, che segnò una fase caratteristica della storia medioevale. Con l’affermazione dell’autonomia dei Comuni il popolo fece una maggiore esperienza di libertà, nel senso che ogni città, ogni borgo o villaggio, si trasformarono in centri di iniziativa che scelsero il proprio indirizzo politico e civile.
L’origine dei Comuni, quindi, creò uno sconvolgimento storico che, nonostante le discordie, le congiure, le fazioni, le scorrerie e le guerre vere e proprie, dette la possibilità alla famiglia di vivere una vita sociale completamente nuova, per la mutata organizzazione economica per l’evolversi del linguaggio, della letteratura, dell’arte, delle istituzioni, dei costumi, dei diritti, determinando così anche la scomparsa di eccessivi timori e pregiudizi che fino allora avevano condizionato l’intera umanità. Tutto questo frantumò il sistema feudale, creando una aristocrazia cittadina costituita di un tessuto multicolore di persone, diverse non solo per nascita, rango e potenza economica, ma composto anche di associazioni, i cui componenti si vincolavano reciprocamente, mediante giuramento, per promuovere, amministrare e difendere certi interessi, sia pubblici che privati, riacquistando in un certo modo il senso dello stato.
Per chiarezza di idee, infine, è bene precisare che, a quel tempo, il titolo di città era riservato solo ai centri che erano sede di vescovado, mentre gli altri luoghi erano detti borgo, poi castello e poi terra. Per quest’ultimi, però, se Comuni, era in uso anche la denominazione di distretto.
Tutto quanto già detto, si riferisce anche al territorio del Volterrano, sia perché fu popolato fin da tempi antichi, sia perché fu sede di vari feudi, poi divenuti liberi Comuni.
In quest’area, quello di Monte Voltraio è stato uno degli insediamenti più importanti.
Su un codice autografo del 1650 circa, pubblicato dalla Biblioteca Guarnacci di Volterra nel 1887 a cura di Annibale Cinci, così ci viene presentato:9
«Due miglia vicino alla città di Volterra verso levante, sopra le colline più basse del paese, sorge da una valle assai profonda un monte a guisa di piramide, il quale signoreggiando tutto il contorno, anch’esso molto di lontano si scorge. Il suo giro alla radice è di un miglio e mezzo circa e restringendosi a poco a poco verso la sommità, costituisce in essa una piccola pianura, sopra della quale stava fondata la fortissima rocca, e quasi inespugnabile, poiché da tre bande essendo quasi inaccessibile il monte, solo dalla parte che volge ad oriente, ha l’accesso un poco più facile, ma non di meno molto aspro e che per vie tortuose e difficili conduce alla sommità.
Sopra questo monte, come abbiamo detto, era fondata la rocca della quale si vedono tuttavia vestigia non piccole. A piè di questo monte era il castello di Monte Voltraio detto anticamente Mons Vultraius, posto tra levante e mezzogiorno il quale fu per lungo tempo in molta considerazione non solo per il credito che gli dava una tal fortezza, ma per essere pieno e popolato, e per aver sotto di sè non pochi castelli e grosse ville quivi vicine, perché posto in mezzo tra Volterra e San Gimignano, la poca amicizia che fu sempre tra questi luoghi assicurava e dava credito a questa terra che tra essi era collocata, aggiungendovisi ancora la protezione dei vescovi di Volterra, dei quali e non d’altri professavano di essere in un certo modo sudditi e vassalIi non solo nello spirituale, ma nel temporale ancora».
Parlando di Monte Voltraio, cioè di una località che ha un nome così originale, viene spontaneo domandarsi quale sia stato il motivo di tale denominazione.
Vari scrittori di storia nostrana, a seguito della corruzione che il vocabolo ha subito nel tempo, lo chiamano Monte Veltraio e, oggi, Monte Voltraio, ma il suo originario nome è Monte Vultraio.
Stabilire, ora, con certezza la sua effettiva origine è pressoché impossibile; al riguardo possono essere avanzate solo alcune supposizioni.
Taluni affermano che la parola Vultraio derivi da voltura, oppure da Velathri, cioè dal nome etrusco di Volterra. Altri, invece, sostengono che sia derivato da vultur, cioè dal vulture o, per meglio intendersi, da quell’uccello rapace, comunemente chiamato avvoltoio, che nell’antico si dice avesse dimora sulla cima di quell’altura10.
Quest’ultima supposizione sembra sia la più rispondente, opinione questa avvalorata dal fatto che il vultur si dice fosse riprodotto nello stemma di quel Comune.
L’antichità di Monte Voltraio è dimostrata da alcuni reperti archeologici, prima fra tutti quel bronzetto etrusco denominato «Ombra della Sera». Tale reperto, infatti, anche se in modo controverso, perché taluni sostengono che provenga dalla zona di Berignone, da quella parte estrema che protende verso Pomarance, si dice pure che fosse stato rinvenuto nei pressi di Ulignano, località questa molto vicina a Monte Voltraio, che fece parte del suo distretto. A tale reperto ne vanno aggiunti altri, che sono stati rinvenuti in località comprese nel territorio in questione.
Ma nel territorio attorno a Monte Voltraio sono stati rinvenuti da privati altri bronzetti votivi, specialmente a Monte Nero, nello scosceso letto della Strolla, dei quali uno è stato donato al Museo Guarnacci. Risulta poi che, proprio ai piedi di Monte Voltraio, siano venute alla luce, durante la lavorazione dei campi, anche alcune tombe etrusche, poi, per ovvi i motivi, frettolosamente ricoperte, per cui tutto questo sta a dimostrare che quel territorio ospitasse vari insediamenti, fra i quali importanti templi, per lo più dedicati a divinità della campagna e dei boschi.
Parlare poi di quando sia avvenuta l’edificazione delle rocche di Monte Voltraio è peggio che andar di notte.
Sul codice autografo, già rammentato, è scritto che l’antichissima origine di questo castello e fortezza trovasi nelle toscane memorie ritrovate a Scornello che Arunte re dei toscani ne fosse l’edificatore, circa l’anno 515 dopo il diluvio universale11. Però questa è una notizia che non ha nessun fondamento, perché riferita ai famosi scaritti di Curzio Inghirami, ormai riconosciuti e definiti da tempo come un romanzo da fantastoria e che il Cav. Francesco Inghirami, illustre studioso discendente del suddetto, chiamò le imposture di Curzio.
Ma ciò non impedisce di ritenere che la edificazione di Monte Voltraio risalga a tempi antichissimi, anzi ciò è convalidato da un placito in data 12 giugno del 967, tenuto nella casa del vescovo Pietro dal marchese Oberto, conte del castello, alla presenza di Ottone I di Sassonia, di diversi vescovi, giudici e magnati.
Pertanto è evidente che tale documento stabilisce la base di partenza di tutta la storia di Monte Voltraio, anche se poi è logico pensare che la casa del vescovo Pietro, che ospitò tale riunione le rocche e il castello siano stati edificati vari anni avanti di tale data.
Monte Voltraio fu un comune rustico o rurale, per cui sorge spontaneo domandarci cosa significasse tale classificazione.
Esso si differenziava da quello urbano, sia per la distribuzione della popolazione nel territorio, che per la strutturazione del potere amministrativo.
Gli abitanti del comune urbano, salvo qualche eccezione, risiedono nel suo capoluogo, unico centro politico, amministrativo e, in massima parte, anche commerciale. Nel comune rustico o rurale, invece, la popolazione era fortemente decentrata, perché, oltre ad abitare nel borgo aggregato al castello più importante, risiedeva in altri castelli e ville e, la maggior parte, nelle campagne del suo territorio.
La maggioranza degli abitanti fissi del comune rustico o rurale, quindi, era formata da contadini o, comunque, da operai impegnati nell’affinità con la lavorazione della terra.
Gli introiti che maggiormente sostenevano la comunità di Monte Voltraio consistevano nella vendita di prodotti agricoli, nell’allevamento del bestiame e nella riscossione del pedaggio sulla importante arteria di quel tempo, denominata Via delle Colline. In località Serra Pignani si formava un incrocio stradale: uno portava a San Gimignano e al territorio di Firenze, mentre l’altro, più importante, attraversando la foresta di Berignone, collegava l’alta Toscana con Roma.
Fra il bestiame, l’allevamento dei maiali costituiva la maggiore attività commerciale, compresa la lavorazione della loro carne che avveniva con il sale estratto dalle sorgenti di Risalso e di Montebuono.
Consistente, a tal riguardo, era anche l’allevamento di ovini, specialmente nella zona di Cusignano e di Casorelle.
Per quanto riguarda i prodotti agricoli, è da menzionare il crocus sativus o zafferano che, dopo essere stato essiccato, costituiva la droga da commerciare.
Questa droga aveva una grande importanza perché usata nella medicina, in tintoria e nella cucina12 e quella prodotta nel Sangimignanese e dintorni era giudicata della migliore qualità, superando in fama il croco di Poggibonsi e di Colle, nella ValdeJsa, e di Volterra, che pure ne producevano di eccellente 13.
In età comunale, lo zafferano costituiva un dono graditissimo e, al fine di evitare frodi nel suo commercio, furono stabilite gravi pene per coloro che avessero osato acquistare o vendere «ferninellas a croco divisas»14.
Questa droga, per il pregio che aveva, era accettata anche nella contrattazione dei mutui con le banche a parziale pagamento delle rate dovute e, con essa, venivano pagate perfino le masnade, conteggiandola in ragione di 36 soldi la libbra15.
Ai loro primi albori, le sorti di detti Comuni erano rette da un nobile o dal vescovo. Successivamente detto potere passò nelle mani dei rappresentanti eletti, riuniti in una magistratura composta di consoli e, più tardi, sostituita da un consiglio retto da un podestà che, per la necessaria imparzialità, proveniva da un’altra città e rimaneva in carica per un anno.
Si può sostenere con sicurezza che, dati i particolari legami esistiti per un lungo periodo fra Monte Voltraio e San Gimignano, i podestà di quel distretto erano per lo più provenienti da quest’ultima terra e, a tal riguardo, nonostante le poche notizie esistenti in merito, posso citare m. Ruggero nel 122716, Avocato di Iacopo Asseduti nel 122817, m. Buonincontro d’Orlandino Uberti18 nel 1232 e Napoleone nel 123619, il quale, in data 25 marzo del 1237, ebbe un compenso straordinario di cento soldi pisani vecchi per avere ricoperto tale incarico per un mese in più del dovuto. Infine, dal momento in cui prese il sopravvento la repubblica di Firenze, risulta che, in vari distretti del Volterrano, il podestà proveniva da quella città; anche per Monte Voltraio è certo che, nel 1245, fosse Iacopo del Fronte, fiorentino20.
Il consiglio di Monte Voltraio era composto da dieci rappresentanti della terra, undici del borgo e dodici delle ville sottoposte21.
Gli uffiziali del distretto erano un camarlingo (amministratore e tesoriere), un tavolaccino (messo notificatore), venti consiglieri, due provveditori, due impositori, due esattori del dazio, due provveditori dei pupilli, due difensori del Comune, due trombetti (banditori pubblici), un balitore per ciascuna villa22.
Nell’alto Medioevo, per le eredità ricevute da antiche civiltà, venivano già applicati accorgimenti particolari per la conservazione del suolo e dell’acqua, come pure la rotazione delle colture, la fertilizzazione organica e il terrazzamento dei pendii. Pertanto l’ambiente fisico, anche in quell’epoca, aveva una fondamentale importanza per l’agricoltura, l’allevamento degli animali e l’utilizzo dei boschi, attività queste che nel territorio in argomento erano favorite dalle acque dell’Era e, nella Val di Cecina, dal Fosci.
È evidente, quindi, che anche nel distretto di Monte Voltraio, la flora e la fauna erano molto curate e, oggi, in conseguenza dello spopolamento di quella terra rispetto a quei tempi, specialmente sul colle in cui si ergevano le antiche rocche e sul pendìo di levante, dove si trovava il terrazzato borgo, il colpo d’occhio scopre subito un ambiente senz’altro più selvaggio e rigoglioso di vegetazione.
Se a Monte Voltraio si può supporre, per i suddetti motivi, un aumento di vegetazione, per il resto del territorio del distretto viene da pensare che sia tutto l’opposto.
Prendiamo ad esempio Pignano, che nell’antichità troviamo spesso rammentato come Serra Pignani, per il quale, anche dalla denominazione stessa, viene da supporre che allora la vegetazione si spandesse in un’area molto più vasta di quella attuale. Così doveva essere anche per Settimena, dove, pur esistendo ancora il bosco, certamente oggi non può essere come quello di quei tempi, perché nei secoli è stato eliminato per far posto ad ampi campi per la semina di varie colture e per le cave per l’estrazione dell’alabastro.
Altrettanto può dirsi per le altre località del distretto, ad eccezione della macchia di Tatti, luoghi che oggi, rispetto a quei tempi, possiamo considerare quasi del tutto spogli di vegetazione.
La flora, che si trova nell’antico distretto di Monte Voltraio, è costituita per lo più da piante di quercia, di leccio, di carpine, di cerro, di avornio (da noi detto aborniello), alle quali si aggiungono vari pini, anche di grosso fusto. Non rari, poi, sono i cipressi che, fra l’altro, oltre ad essere piantati nei pressi dei cimiteri o di vari casolari di campagna, servivano per la delimitazione dei confini delle proprietà terriere.
La fauna che vive fra questa vegetazione, ricca di sottobosco, è composta da volpi, tassi, ghiri, istrici, ricci, faine, donnole e scoiattoli. La selvaggina stanziale, come il coniglio selvatico, la lepre e il fagiano, è scarsa, mentre abbondano i cinghiali, specialmente nella zona di Monte Nero e nella selva di Tatti. Non rara è la presenza di rettili, come serpi, bisce, ramarri, lucertole e, da quanto mi si dice, anche di vipere che, io, fortunatamente, non ho mai incontrato nel mio lungo peregrinare in questo territorio.
Il poggio di Monte Voltraio, inoltre, è un posto assai ricercato e anche conteso dai cacciatori, che, nel mese di Novembre e in parte in quello di Dicembre, vi fissano le poste per il passaggio delle beccacce. È un appuntamento questo che si ripete chissà da quanto tempo e non è da escludere che la caccia a questo uccello migratore avvenisse già nel periodo storico in riferimento, con la sola differenza che allora non era fatta a colpi di fucile, ma con l’arco e la freccia o con il lancio di pietre.
La zona di Ponsano e di Porciniano, infine, è ricca di vegetazione, nella quale primeggiano il sondro, la mortella e l’albatro.
Il sondro, meglio conosciuto come lentischio o lentisco, è un arboscello con foglie paripennate e foglioline ovali. I suoi fiori sono piccoli e disposti a grappoli; il suo frutto ha una piccola dupra che, a maturazione, diventa nera. Il sondro dà una specie di resina e le sue foglie sono ricche di tannino, una sostanza molto usata nelle concerie, mentre i suoi fiori dànno olio grasso, che veniva reso commestibile da un particolare procedimento, mentre dal suo legno veniva estratta una sostanza colorante gialla. L’olio che si ricavava dai fiori del sondro, era poi, in certi tempi, esportato a Milano.
La mortella o mirto è un arboscello che raggiunge i due metri d’altezza, con foglie sempreverdi, anch’esse di forma ovale, mentre i suoi fiori sono bianchi. Si tratta di una pianta aromatica e tanti anni addietro le sue foglie venivano essiccate in rudimentali costruzioni; il prodotto veniva poi smerciato per la concia delle pelli e si dice che, dopo un particolare trattamento, venisse usato anche per l’aromatizzazione di cibi e bevande.
Proprio nella zona di Porciniano è stato rinvenuto un mezzo mattone, sul quale si legge chiara la scritta «anno 1693». Alcuni credono sia il resto di una fornace, mentre non è da escludere che si possa trattare di un mattone impiegato nel rudimentale essiccatoio della mortella, che si trovava proprio nella zona al limite del bosco.
La vegetazione di queste due località, come ho detto in precedenza, è ricca di piante di albatro, detto pure baccarello, che noi invece conosciamo più comunemente come corbezzolo, dal quale veniva estratta l’acquavite con un impianto che si trovava al podere Caprareccia.
Fra Ponsano e Porciniano si trova il botro del Grinze, nel quale è stato ricavato un ampio lago, dove ho notato anche varie anatre selvatiche.
Scendendo da Volterra verso Colle Val d’Elsa, sulla sinistra, a circa tre chilometri, cioè all’altezza di Poggio San Martino, ci appare, in tutta la sua maestosa caratteristica, Monte Voltraio che, per la sua originale caratteristica, ritengo il Pan di Zucchero del Volterrano.
Fa da sfondo a questo monticello, alto 458 metri, la catena montuosa del Cornocchio, che delimita il confine della provincia di Pisa con quelle di Firenze e di Siena.
Noi Volterrani conosciamo la collina di Monte Voltraio sotto il volgare nome di Poggio alla Rocca, denominazione attribuitali, senz’altro, per l’antica fortificazione che, nell’antico, si trovava sul suo vertice.
Ai piedi di detto monticello, in due rami distinti, scorrono l’Era Viva e l’Era Morta che, poi congiungendosi, danno origine al fiume vero e proprio.
L’Era Viva nasce dalle piagge di Pignano e percorre un territorio assai ricco di acqua, ricevendo vari botri e botrelli, fra i quali ricorderò quelli della Casetta e di Tegolaia. L’Era Morta, invece, ha origine nei pressi di Spicchiaiola e di Sant’Anastasio, ed è così denominata per la sua scarsa portata di acqua. Nel suo breve tragitto riceve le acque dei botri della Bandita e dei Botracci e forma un lago, in prossimità del Palagione, a seguito di una frana del terreno.
Anche se di dubbiosissima veridicità, si dice che il fiume Era in antico fosse chiamato Esar, nome derivante da Esare, nume dei Tusci23.
È da chiarire subito che non è possibile dare una precisa denominazione alle antiche fortificazioni. Arce, rocca, castellum, castrum, casserum, castellio e fertilitium, sono tutte attribuzioni riferibili ad un luogo predisposto per la difesa di un territorio e per eventuali azioni offensive, per cui appare arduo dare ad ognuna di esse un preciso e differenziato significato. Infatti, solo in rapporto alle circostanze storiche, possiamo distinguerne la denominazione, in quanto ad essa concorrono varie funzioni politiche, le quali progressivamente esaurendosi, si determinò una parallela trasformazione anche nella denominazione, in base alla successione dei vari periodi che hanno caratterizzato il Medioevo, nonché alla struttura che in dette costruzioni è mutata a seguito della evoluzione dei tempi.
Nonostante tutto è necessario, però, cercare di interpretare quali siano le denominazioni più appropriate da dare a questi fortilizi e, quindi, nel farlo, è bene seguire i criteri degli studiosi del periodo storico in argomento.
L’arce, detta anche rocca, secondo gli specialisti della materia, signifìca luogo fortificato, denotando spesso la parte più alta e quasi inaccessibile, situata sul vertice di un rilievo, naturalmente aspro, e costruita sopra il masso. Siamo, quindi, in presenza di un luogo rilevato, dirupato e scosceso.
La parte più importante dell’area era denominata cassero, cioè una fortezza dentro un’ampia fortificazione, come ulteriore ed ultimo baluardo di difesa, comprendente anche vani, detti caneva, idonei a raccogliere e conservare le scorte di derrate, nonché la cisterna, per lo più costruita nelle fondamenta dell’edificio più grande, dove venivano convogliate le acque piovane, al fine di costituire consistenti riserve di questa grande e gratuita ricchezza naturale, per poi utilizzarla al meglio, sia in tempo di pace che durante eventuali assedi.
I ruderi di questa antica fortificazione fiancheggiano l’estremo limite del massimo vertice della collina e i muri che ne delimitano la sua area furono costruiti sul masso, detto panchino, che, in alcuni punti delle varie coste del colle stesso, fuoriesce dal terreno anche per un’altezza di tre metri circa.
Anche la costa situata a sud, che nella pianta non ho contraddistinto con alcuna lettera, è a strapiombo e si eleva nei pressi della villa del Palagione. Pur essendo anch’essa ricoperta di vegetazione, tuttavia appaiono in alcuni punti tratti di masso, per lo più caratterizzato da fessurazioni che possono dare luogo a limitate frane per distacco.
(A) L’arce di Monte Voltraio, come ho già detto in precedenza, si trova sul vertice massimo della collina e fu detto, per questo, Rocca di Sopra.
La sua area è limitata a duemilacinquecento metri quadrati circa e all’interno si trovano i resti di alcune costruzioni che, almeno per il momento, non possono essere individuate nella loro struttura ed uso, ad eccezione di quella di metri 3.40 per 2.80, che è da riternersi la parte interrata di una torre.
La parte più ampia di detta fortificazione, ora ricoperta in massima parte di vegetazione, è libera da ruderi perché in passato fu dissodata e destinata a terreno semi nativo.
I ruderi delle mura, che delimitano la cinta dell’area dell’aree, sono tutti di consistente bozzato, per lo più di uno spessore di 70 centimetri circa. In alcuni punti, però, forse per la particolare conformazione del terreno, le mura hanno uno spessore più ampio perché sono formate da una doppia fila di bozze.
L’area di Monte Voltraio comprendeva, poi, il palazzo del Vescovo, la chiesetta del cassero, forse detta anche del Casato, nonché la torre maggiore, detta dei Griffolini, la torricella nuova, la torricina nuova e tante altre come quella dei Carnenventri, dei Franceschi, degli Uberti, degli Ughi, dei Quavia, degli Scotto di Colle, degli Aliotti, dei Danese, dei Poscha, dei Castiglioni, dei Cacciaconte, dei Gulliccioni, dei Beringeri, dei Baldinotti, dei Gualandelli, dei Ruggerini, degli Spada e varie altre costruzioni dette semplicemente casa o casalina24.
È chiaro che tutte queste costruzioni non potevano avere grandi dimensioni e, per lo più, come sta ad indicare la denominazione torre, si sviluppavano in altezza, allo scopo di supplire alla mancanza di spazio all’interno della limitata area. Non è da escludere, inoltre, in conseguenza delle scarse e un po’ confuse notizie a noi pervenute, che fra i nomi rammentati vi siano comproprietari di porzioni di una torre, o che alcuni di essi siano succeduti fra loro nella proprietà della torre stessa.
È da rilevare, infine, che tanto le mura che i vari edifici erano eretti in base alle caratteristiche e alla conformazione del terreno e che ogni costruzione era in pietra, perché sul posto o nelle vicinanze si poteva disporre di ottimo panchino e ben difficilmente, fino al 1300 circa, anche in Volterra fu fatto ricorso ai mattoni di cotto.
(B) Siamo in presenza del presunto Balco. La funzione di questa costruzione era molto importante; oltre che per la difesa, era destinato all’avvistamento al fine di evitare di essere colti di sorpresa da attacchi nemici, con una visuale panoramica su tre lati. Non è da escludere che, su tale muro, siano esistite anche delle torrette, per consentire riparo alle sentinelle che si avvicendavano in detto servizio.
L’origine della sua denominazione è germanica e si riferisce all’odierno balcone, cioè, per meglio intendersi, alla terrazza, dalla quale è possibile una migliore veduta che da una semplice finestra.
Attualmente è costituito solo da un muro lungo 56 metri e largo 4, che inizia dalla cosiddetta porta murata e si dilunga fino allo strapiombo rivolto a nord e su un terreno assai friabile tanto che, in vari punti di questa costa del colle, si verificano frane anche di bozzato e di acciottolato in genere. Detto muro è formato ai due lati di bozze di 70 centimetri circa e, il suo interno, è ripieno di sassi e di terra. Alla base del Balco, sulla costa di levante, si trova un lungo ed ampio pendio, cioè terreno assai dirupato, per questo chiamato ripa.
(C) Costa di ponente, tutta ricoperta di fitta vegetazione, molto scoscesa e in parte agibile attraverso alcuni ripidi viottoli che, alcuni, ritengono invece antiche vie di accesso alla fortificazione.
Questa opinione è molto discutibile perché, gli atti a noi pervenuti, testimoniano l’esistenza di un solo accesso alla fortificazione, ravvisabile per le sue caratteristiche in quello situato sulla costa opposta.
Detti passaggi, anche se esistiti nel periodo storico in argomento, non sembra siano stati vere e proprie vie di accesso, ma dei semplici tratturi. Non è da escludere, poi, di essere in presenza di viottoli imposti da esigenze connesse al taglio del bosco.
Ai piedi di questa costa si trova la strada detta del Pian dei Meli, che tuttora presenta vari tratti di selciato e che un tempo arrivava fino al casale Rocca.
(D) Costa di levante, anch’essa ricoperta di vegetazione, sulla quale, oltre a snodarsi la ripida strada di accesso alla fortificazione, si sviluppava l’antico terrazzato borgo di Monte Voltraio.
Detta strada, che passa nei pressi del luogo in cui si trovava l’antica pieve di San Giovanni, prima di essere ampliata per via di riprese cinematografiche del «Cammina Cammina», era larga un metro e quaranta centimetri e presentava ancora vari muretti di bozzato, eretti a sostegno del terreno soprastante, e alcuni piccoli tratti di selciato.
(E) Come si suppone, a fianco del Balco, si trovava la Rocca di Sotto, detta appunto anche Rocca del Balco. Si trattava di un ulteriore fortilizio, eretto in una zona del colle che, senza di esso, sarebbe tato di facile espugnazione.
La Rocca del Balco era detta Rocca di Sotto perché si trovava ad un’altitudine di poco inferiore, circa dieci metri, da quella di Sopra e consisteva in una torre25, distinta con quella denominazione perché costruita sul lato sinistro del Balco, cioè a fianco di quel muro lungo 56 metri e largo 4.
La sua denominazione dette senz’altro origine alla nobile casata dei Balco e, forse, era la costruzione più importante del fortilizio di Monte Voltraio perché posseduta da una delle più potenti e nobiliari famiglie di quel distretto, della quale troviamo la prima notizia intorno al 1190 con un certo Arrigo di Balco, che fu uno dei signori più potenti di detta terra26.
A dimostrazione dell’importanza che i nobili di Balco hanno avuto nel distretto di Monte Voltraio, è da segnalare che con atto in data 19 Agosto 1235, rogato dal notaio Lamberto: «Altimanno del Balco, del fu Tancreduccio, e Piero, figlio di detto Altimanno, vendettero e consegnarono a Filippo Sinibaldi, magistrato volterrano acquirente per il Comune di Volterra, tutto quanto avevano nel castello, Balco e rocca del Monte Vultraio, nella relativa curia e distretto e specialmente la metà pro indiviso di una casa con terreno posta sul detto Balco, cui da un lato è la via, dal secondo la proprietà Pescetti di Agnano, dal terzo è la rocca, dal quarto la proprietà di Guglielmo Spada. Inoltre una casa con terreno, posta sulla rocca di detto castello, sopra il Balco, cui da ogni parte è la strada. Inoltre uno spazio di terra, posto presso detta casa, cui da un lato è la casa di Bonaccorso Uberti e di Bernardino Cavalchetti. Inoltre un’altra casa con terreno, posta presso la casa di Ouerceto, cui da un lato è la proprietà di Bedo, dall’altro il suo orto, al di opra è la via, al di sotto il muro castellano»27.
Ma l’importanza e la potenza di tale nobile casata è ulteriormente dimostrata da altri due atti in data 17 Agosto del 1236, rogati dai notai Niguardo e Bembone, dai quali risulta che «Enrico del Balco del fu Tancreduccino e Tabernario e Leone, figli di detto Enrico, vendettero e consegnarono a Filippo Sinibaldi, acquirente a nome del Comune di Volterra, tutto ciò che avevano e tenevano nel castello, rocca e Balco del Monte Vultraio e tutta la giurisdizione che avevano in detto castello, Rocca e Balco del Monte Vultraio, nella sua curia e distretto e specialmente la metà pro indiviso di una casa con terreno, posta in detto castello sopra il Balco, cui da un lato e la via, da un altro la proprietà Fascetti di Agnano, di sopra è la rocca e dal quarto è la proprietà di Guglielmino Spada. Inoltre una casa con terreno, posta in detto luogo, cui da un lato è la proprietà di Guglielmo, dal secondo quella delle figlie di Passafolle, da un capo è la rocca e dall’altro la via. Inoltre la metà pro indiviso di un’altra casa, posta in detto luogo, cui da ogni parte è la strada. Inoltre una parte di nove parti di una torre nuova e dello spazio, che è presso la torre e fa con essa un solo complesso, posto in detto luogo, cui dal primo lato è la piazza, dal secondo la via e la proprietà di Tedicio, dal terzo quella di Ormanno e Aliotto e dei figli di Forteguerra e la torricina nuova, dal quarto il muro castellano, e in tutte le terre, spazi, possessi e diritti posti in detto cassero e sopra il Balco del Monte Vultraio per acquisto fatto per loro da Gullo e Beringerio Cavalcalombardi di Montignoso e da Upizzino Ilduini»28.
Le relazioni frequenti del castrum con il burgus e la plebs e la curtis significano l’esistenza del popolo, del volgo o plebe che viveva, dentro o intorno alle opere fortificate, con un rapporto giuridico di diversa origine e struttura da epoca ad epoca e da luogo a luogo.
Nel caso di Monte Voltraio, invece, il borgo era, in buona parte, turrito perché destinato anche ad abitazione delle famiglie nobili.
È da considerare, poi, che, a quel tempo, chi possedeva terreni facenti parte del territorio di un Comune, per regola doveva costruire una propria abitazione in quel distretto, con l’obbligo di abitarvi almeno tre mesi l’anno in tempo di pace, e sei mesi in tempo di guerra. È evidente, quindi, che questi proprietari terrieri dovevano avere dominio, signoria, uso e giurisdizione anche nel territorio di Monte Voltraio, per cui si comprende bene perché anche il borgo fosse ricco di torri, che distinguevano per rango, e, quindi, per nobiltà, i proprietari di esse.
È da segnalare, inoltre, che per gli abitanti di Monte Voltraio, dopo un certo periodo di potere di natura monocratica, l’esercizio politico e giuridico fu per lo più comunitario, collettivo e pluralistico, nel quale non era esclusa una qualsiasi iniziativa o partecipazione dei sudditi all’organizzazione del potere.
Il borgo di Monte Voltraio, pur basandoci su deduzioni che scaturiscono da imprecise fonti scritte, possiamo dividerlo in due parti: quella denominata il Querceto che, partendo dalla base della costa del colle posta a nord, comprendeva il territorio in cui è la fonte e terminava, presso a poco, sotto le pendici della ripa ed era protetto da mura castellane, dette appunto del Querceto; l’altra parte, invece, è da presumere che comprendesse l’intera terrazzata costa di levante, con la Pieve di San Giovanni, per terminare nella zona in cui attualmente si trova la villa del Palagione. Pur risultando tale porzione del borgo protetta in parte da mura, non è da escludere che in qualche punto esistessero solo dei fossati o delle carbonaie.
Sembra, poi, che vi fosse anche un sobborgo, che si estendesse lungo la strada che porta a Pignano, comprendendo quindi il territorio della Nunziata e del Palazzino.
Di detto borgo non esistono ruderi di rilievo, ma solo dei muretti, sparsi qua e là, nascosti dalla vegetazione.
Sulla terra di Monte Voltraio ci è stata tramandata una leggenda che, senz’altro, ha una natura fantastica.
Si dice, infatti, che questo poggio nasconda una chioccia con dodici pulcini, tutti d’oro.
Si tratta di una leggenda antichissima, tramandata di generazione, senza perdere nulla della sua originalità.
È una leggenda questa che si ritrova in varie altre città della Toscana e dell’alto Lazio e sembra che la chioccia rappresenti la confederazione etrusca e che i dodici pulcini si riferiscano alle città che la costituivano.
Ad esempio, nei pressi di Viterbo, nella Grotta del Riello, si dice compaia all’imbrunire la chioccia con i pulcini razzolanti entro le sotterranee gallerie e che, al riguardo, si scrive che si tratta di simbolismo mitico, riferendosi al Grande Sacerdote etrusco, detto Laukme (o Larthe), e ai dodici Lucumoni ch’egli guidava, traendoli da lontani centri, per rivelare loro gli appresi misteri della divinità Velthe(38).
Nel Medioevo la riproduzione della chioccia con i pulcini fu molto in uso, quale simbolo di prosperità, che veniva data in dono ai novelli sposi, limitando il numero dei pulcini a quello dei figli che venivano augurati alla coppia cui era diretta.
Ma certo è che si tratta di una tradizione longobarda e, a dimostrazione di ciò, basta vedere l’inestimabile pezzo d’arte del tesoro del Duomo di Monza del VI secolo, che si suppone sia il dono della regina Teodolina alla basilica e rappresenti la regina stessa che protegge i ducati longobardi o, forse, era un simbolo del rinnovarsi nella vita (39).
Concludendo, non è da trascurare che presso i popoli germanici era frequente l’uso di porre nelle tombe, insieme al defunto, delle uova o delle galline o degli oggetti che le sostituissero.
Rimane, infine, da fare l’accenno ad un’altra leggenda, che in parte riguarda Monte Voltraio. Si tratta di tre sorelle, una castellana di Monte Voltraio, l’altra di Rocca Silano e la terza di Rocca Pietra Cassa, cime di colline visibili fra loro. Queste nobil donne, si dice che rimediassero alla impossibilità di vedersi, per la rivalità esistente fra le loro famiglie, scambiandosi ogni sera e alla stessa ora il saluto tramite un lume, che ognuna di loro agitava dalla torre più alta del castello.
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Concludendo questo primo capitolo, anche per togliermi un grosso groppo che da tempo ho sullo stomaco, mi trovo costretto ad esprimere il più vivo rammarico sulla condizione in cui si trovano vari reperti storici di questo imporrante territorio.
Devo lamentare, prima di tutto, lo stato in cui si trovano le testimonianze della pieve di Monte Voltraio, che da secoli sono esposte all‘usura delle intemperie e, fra l’altro, ora quasi affondate nello sterco dei greggi che vi pascolano o che vi pascolavano. Credo, come anni addietro ebbi a suggerire, anche per iscritto a chi di dovere, che tali pregevoli reperti troverebbero migliore sistemazione nel Museo d’Arte Sacra.
Devo far presente, inoltre, che sulla «banda» di Monte Voltraio. rivolta verso levante, e precisamente dal punto in cui si trovano i resti di detta antica pieve, partiva una stradina, larga un metro e quaranta centimetri circa, in parte lastricata e munita di vari muretti a sostegno del terreno soprastante. Questa stradina conduceva in cima al colle, congiungendosi, ad un certo punto, con quella che proveniva dalla fonte, e terminava con altri ruderi in bozzato. Oggi questa stradina ha subito un radicale cambiamento perché, in occasione delle riprese del film «Cammina, cammina», effettuate dal regista Ermanno Olmi, una possente ruspa ha cancellato ogni testimonianza storica, al fine di consentire il passaggio di mezzi di trasporto dell’attrezzatura che occorreva per il «set» cinematografico. Pertanto, oltre la già parziale lastricatura della stradina e i muretti di sostegno del terreno, sono state divelte piante, anche di grosso fusto, e smossi dei macigni che oggi si trovano in bilico sulla sottostante vegetazione, determinando così il pericolo che detti massi e possibili frane del terreno, abbastanza friabile, possano travolgere o comunque recare danno agli ignari visitatori.
Tale stato di cose, invece, poteva essere evitato, perché mi ricordo che, al tempo che la fattoria del Palagione era in auge, quando si doveva andare in cima al colle con una particolare attrezzatura agricola o per il disboscamento, al fine di non mutare lo stato dei luoghi, lo si faceva con un trattorino che poteva, senz’altro, essere usato anche in tale circostanza. Pertanto, se per il regista Ermanno Olmi «fare un film è come preparare una ministra» (Corriere della Sera 25 Settembre 1982, p. 13) e se la responsabilità di una simile iniziativa devastatrice è sua, non mi resta di raccomandargli che, alla prossima occasione, in qualunque località debba andare, porti dietro anche sua moglie, così avremo la certezza che il «focarile» in cui la prossima «minestra» sarà preparata, non sarà danneggiato.
Sul versante opposto vi è poi il casale Rocca, che sebbene fosse da tempo trasformato in abitazione di famiglia coloniche, era stato mantenuto sempre in modo decente e, quindi, accettabile sotto ogni punto di vista per questa antica e pregevole villa del contado. Oggi, invece, vi vengono custoditi i greggi di pecore, per cui, tanto l’interno quanto l’esterno, sono ridotti ad una vera e propria concimaia.
Poco più in là del casale Rocca, si trova la chiesina della Nunziata che, anni addietro, era ancora in buono stato di conservazione, mentre oggi è in via di completa demolizione perché il tetto è franato ed è adibita a ricovero di foraggio e paglia, dove trovai sdraiato un pecorone che tranquillamente ruminava. Ora c’è da augurarsi che la vicina chiesetta romanica di San Lorenzo al Palazzino, che ancora si trova in un buono stato di conservazione, non faccia la stessa fine di quella della Nunziata.
Tralasciando altri minori «misfatti», che per doverli dichiarare tutti ci vorrebbe un giornale intero, non posso fare a meno di ricordare il rispetto del paesaggio, che molto spesso sento invocare anche per motivi futili, per poi constatare che, in altre occasioni in cui dovrebbe essere considerato in modo fondamentale, perché di indiscussa importanza, come nel territorio in questione, viene del tutto trascurato. Mi voglio riferire a quel prefabbricato installato poco più in là di Monte Voltraio, sulla destra della strada che porta a Pignano, il quale, così allo scoperto, è da considerarsi come il classico «picchio in un occhio», in una zona altamente archeologica e, quindi, di indiscussa rilevanza storica.
Ora è bene concludere e precisare che, queste mie constatazioni, non intendo denunciarle solo all’opinione pubblica, ma «urlarle a squarciagola» affinché giungano «a’ l’urecchio» di chi è preposto alla tutela di questo patrimonio culturale e storico che, se anche di proprietà privata, è un tesoro di inestimabile valore che appartiene a tutta la comunità.
Non mi resta di augurarmi che, di dovere, intenda. Grazie.