Quando le strutture della miniera di Caporciano, abbandonate da decenni, erano ormai veri e propri ruderi; e lontani erano ancora i tempi e le condizioni che avrebbero poi reso possibile la ristrutturazione e la realizzazione del Parco Museale.
Eppure, grazie alla passione e all’ardimentosa audacia del custode, Luigi Bartolini – meglio conosciuto come “Gigi di Massimo” e dagli amici scherzosamente chiamato con l’appellativo “Donegani”, per il suo inverosimile immedesimarsi negli interessi della Società Montecatini – la miniera, nonostante la precaria condizione in cui versava, era anche allora meta di visite.
Anzi, l’itinerario sotterraneo che Gigi proponeva ai suoi avventori non aveva niente a che vedere con quello attuale, ridotto alla zona messa in sicurezza corrispondente alla galleria relativa al piano di accesso alla miniera. Allora, con l’ausilio di una torcia, ci si spingeva attraverso la scalinata malridotta della discenderia fin oltre la cappella famosa per la lunetta robbiana, posta a 114 metri di profondità.
Ad essere accompagnate in quell’avventura erano solitamente poche persone, ma non di rado si presentava l’occasione di far da guida a consistenti gruppi di gitanti all’uopo saliti fino a Caporciano.
È il caso della visita descritta da Giovanni Batistini: una gita del gruppo Amici dell’Arte di Volterra, organizzata appositamente per avventurarsi, o meglio arrischiarsi, nella conoscenza… diretta della “miniera più vecchia d’Europa”.
All’epoca, Gigi aveva quasi settant’anni, ma quella non fu certo la sua ultima missione!
Erano senz’altro tempi diversi e talvolta la temerarietà, vista come dote dei “forti”, sfiorava o addirittura superava l’incoscienza.
E l’ardimento era sicuramente un requisito di cui Gigi non difettava!
Tuttavia, pur non disconoscendo il peso dell’ingente perdita, in quegli anni di abbandono, di testimonianze più o meno tangibili del periodo aureo di Caporciano, si può dire che, in fin dei conti, fu grazie anche all’entusiasta dedizione di Gigi per la “sua miniera” se, malgrado la consueta pressoché unanime indifferenza, la memoria di quell’avventura poté esser tenuta viva.
Riconosciamogli, quindi, di aver anch’egli contribuito, in quel modo, a far sì che, pochi anni dopo la sua scomparsa, emergesse la volontà e fosse possibile dare avvio al recupero dei corpi di fabbrica del vecchio centro minerario, oggi non a torto considerato uno dei più importanti e interessanti siti di archeologia industriale in ambito nazionale.
Alla fantasia di quel turista che va a zonzo in cerca di cose da vedere, cullandosi nella speranza di arricchire il proprio scibile, che può dire il poggio di Caporciano, cui sulle pendici si adagia l’antico castello di Montecatini Val di Cecina? Poco o nulla può dire! Ma per la fantasia di chi va in cerca di minerali e di cristalli è invitante quel monticello di roccia variopinta, apparentata con terra rosso-fegato: si direbbe che fa da spia; si direbbe che va insinuando che sotto c’è qualcosa.
[…] Oggi la zona è abbandonata e i manufatti sono fatiscenti. Si trovano a cinquecento metri più su del paese. Appiccicata ai contrafforti naturali del monte c’è una bicocca e s’intuisce che lì era l’entrata della miniera: c’è scritto anche sulla facciata! Oggi, chi volesse visitare la miniera più vecchia d’Europa, deve domandare del custode: un anziano minatore che ha imparato le cose per pratica e più ancora per sentito dire.
La prima stanza è vuota. In fondo c’è l’apertura del cunicolo con su scritto: “Tu es Dominus meus / In manibus tuis sortes meae”. Traduce il custode a voce spiegata, con qualche strafalcione, e aggiunge: “qui c’era il bussolo a manicchiola per tirarci a sorte i minatori che dovevano scendere in fondo”. E in fondo scendiamo noi. Gli scalini sono sbocconcellati, sdrucciolevoli, appiccicaticci. Qua e là appaiono stalattiti; qua e là guizzano i pipistrelli disturbati; gli altri restano attaccati al soffitto come salsicciotti.
Ora abbiamo la sensazione di scendere in un pozzo senza fine e ci troviamo a disagio. Ci dà coraggio il custode dicendoci: “Biagio della Ciurmola batteva a mazzagubbia; a volte sbagliava e i minatori gli cavarono la storia: «Quattr’anni di mazzagubbia a Gavorrano un colpo sul ginocchio e uno sulla mano»”.
Improvvisamente ci troviamo in una stanzetta sterrata, con un altarino in un angolo. Mi avevano parlato di un’immagine su ceramica Ginori dell’Ottocento e il custode precisa: “Era lì, ma l’hanno ripresa quelli della Robbia!”.
Scendiamo ancora. L’acqua casca abbondante: sembra vada al centro della terra. Invece esce dalle falde del monte un po’ più in giù del podere “Il Concio” [La Concia (NdR)].
Camminiamo a parete per non immollarci e qui sarebbe possibile trovare quarzo, caporcianite, targionite, calcopirite, covellina, cuprite, azzurrite e chi più ne ha più ne metta, ma non si possono prendere: “C’è pericolo!”, dice il custode.
Sbirciando in un cunicolo ci sembra di vedere minerali cristallizzati. Entriamo ma lui grida: “Lì no, c’è pericolo!”. È tutto calcolato; è tutto pericolo.
Riprendiamo così la via del ritorno, dietro a lui che seguita a parlare: “Là c’erano le pompe; qua la discenderia; qui il passamano; laggiù lo scambio; lassù l’ascensore” e ad ogni indicazione ci attacca il commento. Poi, appena usciti, continua, impostando la voce: “In quel casotto, buffo come un lume a mano, ci stava la guardia; lassù in quella torre, c’è una rota come un ritrecine per tirà su e giù ogni cosa; qui ci sono gli uffici”, e così dicendo ci fa entrare. In un registro polveroso sfoglio e leggo: “Tizio, per insubordinazione al capobanda, cinque giorni di sospensione. Caio, per gesto scurrile al capo-servizio, cinque centesimi di multa”. Che tempi!
Per cercar di finire in bellezza dico: “Che ce li darebbe due cristalli, col pagare?”. Va al cassetto grande, prende alcuni pezzetti e ce li dà.
Al profano sembrerebbero sassi e, senza saperlo, ci avrebbe quasi indovinato.1
Indubbiamente efficace è la descrizione di Giovanni Batistini, che ci lascia un bel quadretto sia della discesa nelle viscere della terra sia del personaggio che ne fu la guida. “Tista” riuscì subito ad afferrare, a comprendere la natura di Gigi, e nel suo racconto, con “due o tre pennellate”, ce ne dà conto. D’altra parte in questo egli era maestro: ne abbiamo prova dai suoi numerosi articoli comparsi su “Volterra” e “La Spalletta”, dai vari contributi alla storia locale usciti su “Rassegna Volterrana”, dalle pubblicazioni di carattere volterrano [Racconti Volterrani (1988), Volterra da Napoleone a Porta Pia (1993), Volterra nel Seicento (1995), Folklore volterrano (1966)] e, non ultimo, dai suoi sonetti in vernacolo raccolti nel volumetto Du’ risate con Tista (1997).
Ma di quella gita a Caporciano ricordo bene anche l’entusiastico e al tempo stesso imbarazzato resoconto di mio suocero, Silvano Bertini, allora animatore degli Amici dell’Arte. E nonostante che in passato anch’io, come molti altri, mi fossi irresponsabilmente avventurato all’interno di quei cunicoli bui e malsicuri, rammento di non aver apprezzato affatto l’audacia dei gitanti volterrani (alcuni non proprio più giovanissimi) e soprattutto la loro leggerezza nel far assegnamento tanto sulle presunte competenze di Gigi – senza dubbio non autorizzato a tali iniziative –, quanto sulle garanzie di sicurezza che ovviamente questi non avrebbe potuto loro assicurare.
Per fortuna si tratta solo di lontani ricordi: oggi sia il villaggio di Caporciano che gli impianti minerari, resi sicuri e accessibili al pubblico, si presentano in tutt’altra condizione rispetto a quei tempi. I visitatori, non più in balìa dell’improvvisazione del nostro pur affabile “cicerone”, ma affidati alla provata professionalità di guide specializzate, sono in continua crescita. In pochi anni, il Parco minerario è assurto a notorietà e gode di ampi consensi tanto dalla grande massa dei turisti quanto da appassionati ed esperti di settore.
Un’affermazione, quella della giovane struttura museale, che i montecatinesi non possono certo ignorare, ma che piuttosto dovrebbero far loro e percepirla non come un qualcosa di estraneo bensì come una importante – forse la più consistente se non l’unica – opportunità per il paese di risollevarsi da quel progressivo decadimento, da quel torpore che certo non inducono all’ottimismo.
Confidiamo, quindi; ma al tempo stesso adoperiamoci, sproniamo e vigiliamo affinché lo sviluppo del Parco di Caporciano e del suo indotto non si arresti: ne va del destino di una comunità.
È da non credere: una volta tanto si presenta una situazione favorevole anche per Montecatini! Di sicuro una grossa opportunità per l’iniziativa privata, ma al contempo un’occasione assolutamente da cogliere per una ripresa collettiva.
Un dato di fatto, questo, che non sarà sfuggito neppure ai lettori de “La Spalletta”, ormai più o meno edotti sul peso socio-economico, sulla fama ottocentesca del “paese del rame” e sulle già evidenti potenzialità che il “progetto-museo” racchiude in sé.
Credo che, come da ogni parte d’Italia e dall’estero, a maggior ragione anche dalle vicine località della Val di Cecina moltissimi, ad oggi, abbiano raggiunto Montecatini (taluni per la prima volta) appositamente per far visita alla vecchia miniera. Chi non l’avesse ancora fatto, non vi rinunci: ricordi, anzi, che sarà sempre benvenuto!