I diavoli dell’Aia dei Diavoli

Per raccontare al meglio delle nostre conoscenze orali la leggenda sull’Aia dei Diavoli, è doveroso fare un discorso introduttivo sulla sua posizione geografica. Il monte Aia dei Diavoli svetta appena sopra Castelnuovo; è una altura di quasi novecento metri sopra il livello del mare e fa parte del gruppo delle Colline Metallifere che attorniano gli estremi più selvaggi dell’alta Valdicecina. Queste terre, oggi quasi del tutto incontaminate e fitte di boschi, al massimo mete predilette per il trekking e mtbiking, un tempo erano ambite per costruirvici delle inviolabili postazioni di controllo. L’Aia dei Diavoli però mai è stata coronata da torri o roccaforti, salvo forse dall’antichissimo castello di Santa Lucia in Bruciano di cui abbiamo poche notizie. Piuttosto questa era terra di boscaioli e poi di contadini, i quali, per via della terra dura da lavorare, con grande difficoltà arrivavano in estate con una raccolta soddisfacente di grano.

Come per il monte stesso, sullo spartiacque tra il fiume Cecina e il Cornia, esiste una casa rustica chiamata Aia dei Diavoli e la storia che ci apprestiamo a raccontare vuole che l’assegnazione toponomastica del luogo sia collegata proprio a quel podere, esistente fin dal medioevo, coinvolto in un episodio del tutto straordinario. Ai tempi l’Aia era una imponente struttura fondiaria abilitata per la mezzadria poderale; in genere veniva concessa ad una famiglia, la quale senza terra né abitazione, riceveva in affidamento il podere in cambio della divisione a metà con il proprietario di tutto ciò che si ricavava dalla terra. Il podere disponeva di una casa, dove abitava la famiglia contadina, e di tutta una serie di infrastrutture agricole: l’aia, il fienile, il pozzo e il capanno.

L’Aia aveva visto succedersi molte famiglie di contadini, ma la leggenda si sofferma su di una in particolare, arrivata da molto lontano, che non ebbe mai l’interesse di farsi vedere in pubblico; era una famiglia di cinque persone: padre, madre, due fratelli, una sorella, ma sin dal giorno dell’acquisizione dei terreni nessuno di loro aveva speso parole amichevoli verso i vicini, né tanto meno si era prodigato negli ossequi ai Reggitori di Castel del Sasso o a quelli di Castel Nuovo come era solito fare quando vi si prendeva nuova residenza; ignorarono persino la contessa Gisla de’ Pannocchieschi della Leccia, né ebbero il piacere di andare alle feste paesane, o a messa nella cappella di Castel Volterrano o nella vetusta chiesa plebana di Commessano.

Un comportamento davvero disdicevole: ogni giorno dimostravano quanto poco tenessero alle usanze e alle convenzioni sociali del luogo. Se la questione sembra pettinare solo le competenze della buona educazione, le stranezze si infittivano con l’evidenza palese che pur lavorando come dannati da mattina a sera, i forestieri non si presentavano mai ai mercati delle piazze vicine. Un controsenso molto sospetto: a quel tempo aprire un banco dove vendere i propri prodotti era fondamentale; se un contadino non si esponeva nei mercati dei vari borghi limitrofi era segno che il raccolto era andato male e, quando le cose non portavano profitto, si viveva nella povertà più nera.

Se è vero che in generale nelle tasche dei mezzadri circolava poca moneta per il ruolo determinante dell’autoconsumo e gli scarsi legami con il mercato, era però impossibile che i forestieri potessero tenere ogni sera delle feste private. Senza lilleri non si lallera, direbbe un vecchio detto toscano, eppure, che sibilasse la tramontana, che s’ammulinasse per aria la neve impazzita o che arrivasse una di quelle canicole aride tra capo e collo, i nuovi arrivati avevano comunque un pretesto per far baldoria. La sera le luci dalle finestre baluginavano nell’oscurità e anziché spegnersi per riposare bene alle levatacce dell’indomani, perduravano sotto le note di canzonacce esplicite, danze tribali, schiamazzi indecenti e volgarità fin troppo ubriache. L’eco di quel trambusto arrivava fino a valle e il popolino non poteva fare a meno di chiedersi che tipi di persone fossero.

Il mistero era colmo anche per il susseguirsi di altre contraddizioni. Il fatto che assoldassero braccianti non del posto o che invitassero alle feste personalità estranee alla Valdicecina era certamente una stranezza, ma si trattava di una cosa da poco a cui non fare più di tanto caso, invece quando, due anni dopo, arrivò la carestia il pensiero che ci fosse davvero qualcosa che non andasse baluginò a molti degli abitanti di Castelnuovo. L’acqua non vi era nemmeno per bere e da quanto poco raccolto era stato accantonato persino il vecchio molino, quello che in seguito prese il nome di Mulin di Fondo, chiuse i battenti. Nessuno aveva più grano da macinare, la gora era asciutta per la lunga siccità e mentre le massi dei contadini più poveri s’accartocciavano striminzite sotto un implicabile solleone, quelle dei misteriosi abitanti dell’Aia erano rigogliose.

Le spighe avevano degli strani riflessi rossastri simili a bagliori di fuoco. Così un giorno un concittadino di Castelnuovo, preso dalla curiosità di capirci meglio, intentò una incursione nella proprietà dei forestieri e con stupore, nascosto dietro un pagliaio, potè notare gli atteggiamenti poco umani del capofamiglia; mentre i braccianti chinati procedevano al raccolto, lui era intento a berciare le più sconce canzoni, a pronunciare orribili bestemmie e infine a bere a grandi sorsi il vino direttamente dal cantero, il quale non sempre imboccava, ma sversava sul collo e sulla pancia villosa dell’uomo fino ad arrivare ai piedi, uno di cristiano e l’altro di capra.

Dinanzi a quella scena animalesca il viandante corse di filato fino alla Pieve di Commessano e al piviere, che era sceso ad aprirgli la porta, raccontò quel che aveva visto. Allorché il piviere, che ormai aveva ben intuito di avere a che fare con delle creature del demonio, si fece accompagnare all’Aia dal sagrestano. Dopo aver accomodato alla bell’e meglio un crocifisso sopra una robusta stanga di quercia, si appostarono dietro al pagliaio con un secchio di acqua santa appresso. In quel momento il capofamiglia seminudo dormiva ubriaco, collassato su una panca. Aveva la fronte più alta che larga, senza rughe, che si allungava alle tempie in due piccoli gonfi a corno nella massa dei capelli nerissimi ed opachi; le sopracciglia erano regolari ma cresposi, il naso aquilino, i baffi e la barba lunga e rigogliosa. La carnagione olivastra e leggermente butterata, era a rughe ampie come una cotenna e, la sua gamba sinistra, terminava in un piede forcuto di becco.

La parentesi di sonnolenza di quella creatura era propizia, così che il piviere, nonostante tremasse dalla paura, si fece avanti impugnando il grosso crocifisso. Tuttavia nemmeno due passi in avanti occorse fare, poiché il capofamiglia balzò subito in piedi in preda da un invadente dolore corporeo. Cacciò versi gutturali disumani e mentre i suoi occhi blu spalancati e vitrei si fecero carichi di rabbia, i suoi denti appuntiti attorniarono un sorriso serafico e inquietante. Successe il finimondo, l’urlo richiamò gli altri membri della famiglia, i quali svestiti dalle sembianze umane si mostrarono nelle forme più mefistofeliche. La turba, con le forcole e le palmole minacciava i forestieri, ma quando apparve il sagrestano con alzato sulla destra l’aspersorio, i dannati caddero bocconi sbraitando e rotolando. Poi d’improvviso il grano s’incendiò e in pochi istanti tutto fu avvolto dalle fiamme.

Il fumo dispiegò su tutta lo proprietà e non fu possibile constatare cosa successe veramente dietro quella scarsa visibilità, ma il giorno successivo, quando l’incendio si acquietò, il colle annerito dalla forza del calore sembrò avere pace e rinascere dalle ceneri, libero da qualsiasi influenza negativa. Delle creature demoniache nessuna traccia e mai più ritornarono. Si dedussee siano scomparsi tra le sibilanti lingue di fuoco dell’incendio, ma da allora l’Aia, a memoria di questo evento assurdo, prese il nome di Aia dei Diavoli.

MARCO LORETELLI