Il maiale di Catrino, Podernovo e dei Vitelloni rurali

Il Cecina non sarà il Tevere o l’Arno sulle sponde dei quali sono nate Roma e Firenze, ma se vuoi capire fino in fondo certi personaggi di questa valle che questo fiume, nel suo percorso, ha nei millenni modellato, non puoi permetterti di non conoscere la sua storia. E’ un modo di essere che già scopri e per certi aspetti ritrovi, guardando la calma imperturbabile, ma sempre attenta e interrogativa, degli Etruschi scolpiti nell’alabastro che puoi ammirare al Museo Guarnacci: quei personaggi paciosi che ricordano la flemma di Budda se ne stanno mollemente distesi sulle urne contenenti le proprie ceneri, quasi in un rapporto confidenziale e sereno, nel passaggio ineluttabile dalla vita alla morte.

Queste storiche figure e scene relative di cui mi appresto a parlare riguardano il periodo di metà Novecento, preciso e ben definito, per noi che ne siamo gli abitatori alla foce, e mi riferisco “al mitico tempo di quando volavano i pennati”, di quando alla foce con le piene tremende e rabbiose del Cecina arrivavano, oltre ai pollai, qualche maiale esausto ed incazzato e qualche gabbione di conigli.


Nella ricerca identitaria della Val di Cecina non bisogna dimenticarsi di alcuni animali che hanno convissuto, con i nostri contadini. Anzi ne hanno rappresentato, del resto un po’ come in tutte le realtà rurali, la fonte essenziale di sostentamento. Primo fra tutti il maiale. Un animale sempre ingiustamente bollato da una certa letteratura, e additato come il simbolo della perversione morale! Un animale sempre bistrattato, però, anche nella sua conclusione esistenziale. In particolar modo da noi, l’abbattimento avveniva, infatti, con il sistema barbaro della “spilla”.

Noi il maiale lo vedevamo di “riffe o di raffe” sempre ed inesorabilmente nel ruolo di protagonista, e al tempo stesso vittima sacrificale designata. Scandiva per certi aspetti i passaggi esistenziali della vita. Per esempio il passo cruciale, come lo era, fino agli anni Cinquanta, il fidanzamento in casa che veniva deciso, in tante occasioni, nel momento in cui, il “presciutto era vicino all’osso” e quindi più saporito e quasi sempre bello magro.

IL MAIALE DI CATRINO

Non parlo poi delle guerre, soprattutto dell’ultima guerra, i primi ad essere scuoiati e divorati dalle truppe di passaggio erano sempre e inesorabilmente loro: i poveri maiali. È rimasta storica, e vale la pena di raccontarla, la vicenda di quando al Catrino gli americani “fecero schiantare” un maiale affamatissimo. Al Catrino si presentò loro un cane macilento, ma che non poteva essere un cane per il semplice fatto che i cani non hanno il grifio e non grugniscono. Immediatamente si resero conto che era un cane di razza… suina eccezionalmente magro. E da lì, molto americanamente ripeto, iniziò, insieme alle scommesse su ciò che potesse divorare un maiale ridotto a pelle ed ossa, un’autentica pioggia di primizie alimentari che andavano dalle gallette al latte condensato, dalle cioccolate alla carne in scatola. Al povero maiale di fronte a tutto questo ben di Dio, non gli rimaneva che ingurgitare.


IL CIGNALE DEL RACCONTABALLE

I raccontatori di frottole o di panzane erano quei soggetti che con voce lenta e profonda, durante le veglie invernali, quando la tramontana passava fra le tante fessure delle vecchie case coloniche, cominciavano a parlare di “paure”. Lo facevano con teatralità, roteando a destra e a manca gli occhi sbarrati; per poi sentenziare, tentennando gravemente la testa: a Tegolaia o a Podernovo “ci si sente”!

Era la formula inconfondibile per indicare il fracasso dei fantasmi da noi chiamati spiriti. Ecco, “Gigi di Schioppo” in questo particolare ruolo era l’autorità assoluta. Non parliamo poi delle sue gesta venatorie. Prodezze del tipo di “aver fatto secchi” tre cinghiali in fila con un colpo solo, o nel descrivere “un passo di tordi eccezionale che se non stavi attento ti cavavano l’occhi”… ma le bugie storiche, di fronte alle quali le avventure del barone di Munchausen diventavano una giacchettata, sono quelle del balzello al cinghiale, della zeppa volante e della storta al piede. E al racconto di queste era obbligo assoluto non abbandonarsi ad un pur minimo sorriso. Te lo facevi nemico!

Vide un “cignalone” di un quintale e passa, raccontava, ma si rese conto di aver dimenticato le cartucce a palla, e allora non gli restò che svuotare due cartucce a pallini del 5 e al posto di questi infilarci due belle ghiande di leccio. Dopo la coppiola, andata a segno sul dorso, il cinghiale sparì emettendo un grugnito rabbioso. Fin qui la cosa poteva essere abbastanza credibile. Non lo era più per niente quando, l’anno dopo, lo stesso “cignalone”, uscendo dal trottoio abituale non si fosse mostrato con un bel leccio radicato sulla groppa. Le ghiande erano germogliate!


IL VERRO DI PODERNOVO

Nelle disavventure venatorie il maiale era frequente sbagliarlo per il suo setoloso cugino selvatico: il cinghiale. Anche questo preso come l’immagine selvaggia della Maremma Toscana da bonificare; tant’è che il simbolo del fanfaniano Ente Maremma era appunto un cinghiale infilzato con una freccia.

A titolo esemplificativo, sovviene il fattaccio dell’abbattimento notturno del “verro del Provvedi di Podernovo”; avvenne all’indomani di un drammatico barzello (drammatico per le mordaci e secolari ironie che ne conseguirono a carico degli autori). Si sta parlando di Tognio di Scopeta, detto Buzzino e Cecco di Campordigno, detto Maciste (un omino di poco più di un metro e mezzo). Con una schioppettata a terzarole esplosa all’unisono i due maestri del barzello (che da lì in poi divennero “ex maestri”) fecero secco “Il verro di Podernovo”! E presi poi da un irrefrenabile entusiasmo di aver fatto fuori un “cignalone” di tale enormità, cominciarono a trascinarlo fra immani e titaniche fatiche, ma il tragitto fu solo un breve tratto e cioè fino a quando non finì la corda al quale il maiale era “affunato”, che entrata in trazione gli fece sbattere ad entrambi una bella “musata” per terra! E da lì in poi non si salvarono più: perché di notte puoi sbagliare un maiale per un cinghiale, ma non per un maiale legato a una fune. Quella fu l’occasione per appendere la doppietta ad un chiodo, e non rinnovare mai più il porto d’arme.


IL MAIALE DEI VITELLONI RURALI

Anche la Val di Cecina ha avuto, come nel celebre film di Fellini, i suoi bravi “vitelloni” rurali! Il loro centro operativo, era Ponteginori. Lì confluivano, infatti, tutti i ragazzotti di Querceto, Buriano, Casaglia, La Sassa ed anche dagli altri comuni vicini, come Montescudaio, Casale, Guardistallo. E il motivo era semplicissimo: Ponteginori, per quei tempi, era l’unico centro abitato dotato, per iniziativa della nordica Solvay, di campo sportivo, campi da tennis, piscina, sala da ballo.

Un’attrattiva formidabile, insomma, sconosciuta nella realtà contadina di allora. Tanti di questi giovani, che avevano già operato nei famosi “orti di guerra”, erano impegnati (si fa per dire) nella coltivazione orticola di questi fazzoletti di terra a loro assegnati. Accanto all’orto di guerra c’erano, poi, posizionati al centro, la baracca per gli attrezzi, ed il castro con il relativo inquilino: un povero maiale che aveva avuto la mala sorte di essere affidato alla “cura” di questi famelici custodi. Tanto che una volta gli strilli disperati del malcapitato suino avevano richiamato l’attenzione del sig. Artemio Giselli, il controllore incaricato della conduzione dell’orto che lo fecero irrompere nella baracca, dove questi stavano allegramente banchettando a base di castagne, ed al centro della congrega un fiasco di vino novo “prelevato” abusivamente da chissà quale cigliere.

Le castagne di infima qualità, destinate con la brodaglia di crusca al sostentamento del maiale, venivano fatte saltare invece in una padella sforacchiata a dovere, su un focherello acceso per le bisogna, in una fucina all’interno della baracca. La risposta giustificatrice, immediata e pronta, non poteva che venire da Nedo del Bulleri, detto Buzzino: “Deve sapere, sig. Artemio, che al nostro maiale, le castagne piacciono arrostite”. Dicendo così abbassava la voce, come per svelare, con giusta gravità, il segreto dietetico del maiale. Non credo sia necessario ricordare che il povero porcello, non ne avesse assaggiate, mai, neppure una di quelle castagne.

© Stefano Biagini, STEFANO BIAGINI
Gli americani e il maiale del Catrino, storie della Val di Cecina, in “Il Tirreno”, a. 4 febbraio 2019
Gigi “il raccontaballe” e il suo cinghiale col leccio sulla groppa, in “Il Tirreno”, a. 15 ottobre 2018