Le veglie toscane al Castello di Querceto

Le grandi città con raffinate e antiche tradizioni culturali, hanno sempre avuto, già all’inizio dell’Ottocento particolari occasioni di incontro e di confronto; basti pensare, per esempio al salotto parigino di Madame Stael, o, al più vicino a noi, Gabinetto Viesseux di Firenze. Lì, le menti illuminate, si abbandonavano a fini disquisizioni e dotti conversari, non solo di arte e letteratura, ma di un po’ tutto lo scibile umano. Ebbene, anche Castello di Querceto e del resto, un po’ come tutti i paesini della Val di Cecina, aveva le sue possibilità di confronto e discussione con toni certamente meno elevati, ma comunque sempre appassionati.

Sto parlando delle veglie toscane di metà Novecento dove esisteva ancora il piacere del raccontare e dello stupirsi. Castello di Querceto, però, rispetto agli altri paesini, diciamolo pure, possedeva una marcia in più, trovandosi al centro della grande azienda agraria dei marchesi Ginori Lisci: una nobile famiglia fiorentina (quelli delle famose porcellane) che ha fatto un po’ la storia di tutta la Val di Cecina e di Cecina stessa. Al Castello di Querceto i gabinetti Viesseux erano essenzialmente due: l’abitazione/bottega della Dina, in arte “la barbiera” e l’appalto/osteria di “Memmo del Pacchini”.

LA BOTTEGA DELLA BARBIERA

Dalla Dina la frequentazione era una tappa obbligata, essendo lei l’unico barbiere per i quercetani di paese e dei mezzadri, abitanti nelle campagne dell’enorme fattoria. La signora aveva un carattere scorbutico e risoluto e solo la pazienza della sorella Isolina, la sarta del paese, poteva sopportarla. Ma ad onore della Dina bisogna dire che nel suo lavoro era indubbiamente un’artista, soprattutto nel taglio maschile. Salvo nei casi in cui aveva sognato la fine del mondo!

Dei cataclismi in cui la terra si divideva in due come un cocomero e nel mezzo di questa frattura si materializzava una gigantesca croce di fuoco. Oppure quando diceva di aver incontrato il diavolo. In queste occasioni, il malcapitato che aveva la ventura di trovarsi sotto il panno bianco, non aveva scampo… finiva per trovarsi affettato come una patata! A me da ragazzetto è capitato di farmi i capelli proprio quando aveva incontrato al Torrino, poco prima, “Caron dimonio”. Ricordo ancora i tagli per le sforbiciate maldestre e nervose.


BAR APPALTO DI MEMMO

E poi il bar appalto e cabine telefoniche di Memmo. Memmo del Pacchini sembrava nato per questo genere di lavoro. Amante della burla, delle provocazioni, bugiardo quanto basta per rendere credibili le storie che raccontava, ma soprattutto ironico. È negli annali delle battute quella che fece alla Rosina, una passionaria, come diremo oggi, per tutte le stagioni. La Rosina, durante il ventennio era la più assidua frequentatrice dei raduni prima delle Piccole italiane e poi delle Giovani fasciste. Ritrovandola negli anni Cinquanta del Novecento scalmanata e urlante a una manifestazione della Fuci (cioè delle donne comuniste). Memmo guardandola con un sorrisino a mezza bocca, esordì lapidario: «Toh, Rosina, o che ci risei?».

I personaggi che frequentavano il bar erano dei più coloriti ed erano in buona parte dipendenti dei fiorentini Marchesi Ginori. E gli argomenti trattati spaziavano dalla caccia allo sport. Di quest’ultimo ho sentito da parte di un solito gruppetto di vecchietti, un confronto che nelle serate d’estate si accendeva fino a notte inoltrata. Un diverbio che ha attraversato un po’ tutta la mia infanzia. Il tema riguardava un ipotetico incontro – scontro tra Cavicchi, il famoso pugile degli anni Cinquanta e tre uomini robusti con il bastone. E lì cominciavano le discussioni feroci pro Cavicchi o pro “i tre bastonatori”. A distanza di anni credo che la questione non si sia ancora risolta, neppure in paradiso.

© Stefano Biagini, STEFANO BIAGINI
Le veglie toscane al Castello di Querceto nella bottega della Dina o al bar di Memmo, in “Il Tirreno”, a. 26 novembre 2018